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Luca Chiti

Il centunesimo canto

Philologica dantesca

Biblioteca Oplepiana
N. 18

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Li autori usano, l’altrui autorità, di arrecarle a loro sentenzia, quando comodamente vi si possono arrecare.

(Giovanni Buti, sec. XIV)

La tecnica a incastro fa parte dei procedimenti abituali della narrazione dantesca.

(Natalino Sapegno, sec. XX)

Voi pensate mai all’autore del libro come a uno che non solo dice cose e racconta fatti, bensì anche costruisce una macchina la quale può avere ingranaggi segreti?

(Giampaolo Dossena, sec. XX)

Imperò che l’arte è quella che ci stringe con regule e dottrine

(Giovanni Buti sec. XIV)

p3

N.B. - Quasi tutti i riferimenti a testi, situazioni e persone note o meno (a cominciare dall’Ing. Giovanni Ciancaglini geniale ideatore del nome di Gruccio) non sono né immaginari né casuali.

Le circostanze di una scoperta

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Verso la metà degli anni cinquanta, a Lucca, in una pausa dello studio faticosissimo, gettando distrattamente lo sguardo sul testo aperto dell’Inferno dantesco, mentre faceva merenda, tal Giovanni Ciancaglini, allora studente del Liceo Classico Machiavelli, adesso affermato ingegnere, con la coda dell’occhio vide una specie de strisciolina di nebbiosa grumosità proprio nello spazio bianco tra il ventinovesimo e in trentesimo canto del poema. Lì per lì — secondo la testimonianza raccolta direttamente dalla sua bocca — non ci fece molto caso e la prese per una imperfezione di stampa, una delle tante, che all’epoca, punteggiavano i libri. Tuttavia quel guizzo di visione lo aveva stranamente colpito. Dette una seconda occhiata; e poi una terza a una quarta. Cinque minuti dopo quella brumosità era diventata un’ossessione. Prese la lente che gli serviva per la collezione di francobolli e cominciò a osservarla più da vicino.

Il limitato ingrandimento del piccolo strumento non fece granché, ma fu, comunque, sufficiente per instillargli il dubbio che si trattasse di una macchiolina del tutto particolare. Se infatti, a occhio nudo, era apparsa così,

  e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’ io fui di natura buona scimia».

[smudge]

CANTO TRENTESIMO.

Nel tempo che Iunone era crucciata
  per Semelè contra ’l sangue tebano,

osservata con la lente già si presentava come segue:
com’ io fui di natura buona scimia».

[smudge]

Per i successivi ingrandimenti il Ciancaglini, che si dilettava p6 di fotografia, usò l’armamentario di cui si serviva per sviluppare da sé i negativi, dedicando all’operazione tutto il resto del pomeriggio. Questo fu il primo risultato1:

[larger smudge]

Ma l’effetto della stampa del secondo negativo fu ancora più stupefacente, anche perché, quando con ulteriore ingrandimento il giovane ebbe la intelligente idea di ruotare l’immagine di 90 gradi in senso orario, vide che, benché la dimensione dei caratteri non ne rendesse ancora possibile la lettura, si trattava senza dubbio di uno scritto e, probabilmente (data l’irregolarità del margine destro), addirittura di uno scritto in versi.

[even larger, rotated, smudge]

Il Ciancaglini bruciava dalla curiosità. Ma dovette pazientare p7 perché era arrivata l’ora di cena e di andare a letto. La notte — ricorda ancora l’ingegnere — fu agitata da confuse parole che emergevano e si annodavano come lombrichi nel dormiveglia.

I passi successivi — decisivi — furono compiuti il giorno dopo, quando, ormai esperto sul da farsi, il giovane vide sbocciare in successione i risultati che seguono:

(1)

E, come l’uom che di trottare è lasso, poi fummo fatti soli procedendo di corno in corno e tra la cima e ’l basso. Ci sentivano andar; però, tacendo tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava; per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo. E videmi e conobbemi e chiamava e cominciò, raggiandomi d’un riso. Pensa, lettor, s’io mi maravigliava come chi trova suo cammin riciso da quella parte onde ’l cuore ha la gente. Io mi volsi ver lui, e guardail fiso molto di là da quel che l’è parvente. E quelli: “O figiuol mio, non ti dispiaccia, ancor fia grave il memorar presente, ch’a così fatta parte si confaccia di ragionar coi buoni, o d’appressarsi”. E al maestro mio volse la faccia, oltre quanto potean li occhi allungarsi. E sé continuando al primo detto, come sotto li scudi per salvarsi, guardommi, e con le man s’aperse il petto: “Tu dei saper ch’i’ fui de’ Bardonecchi, Gruccio nel volto dal mento al ciuffetto che recherà la tasca con tre becchi che mai da circuir non si diparte. Spesse fiate m’intronan li orecchi, le spalle e ’l petto e del ventre gran parte;

(2)

E, come l’uom che di trottare è lasso, poi fummo fatti soli procedendo di corno in corno e tra la cima e ’l basso. Ci sentivano andar; però, tacendo tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava; per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo. E videmi e conobbemi e chiamava e cominciò, raggiandomi d’un riso. Pensa, lettor, s’io mi maravigliava come chi trova suo cammin riciso da quella parte onde ’l cuore ha la gente. Io mi volsi ver lui, e guardail fiso molto di là da quel che l’è parvente. E quelli: “O figiuol mio, non ti dispiaccia, ancor fia grave il memorar presente, ch’a così fatta parte si confaccia di ragionar coi buoni, o d’appressarsi”. E al maestro mio volse la faccia, oltre quanto potean li occhi allungarsi. E sé continuando al primo detto, come sotto li scudi per salvarsi, guardommi, e con le man s’aperse il petto: “Tu dei saper ch’i’ fui de’ Bardonecchi,

(3)

E, come l’uom che di trottare è lasso, poi fummo fatti soli procedendop8 di corno in corno e tra la cima e ’l basso. Ci sentivano andar; però, tacendo tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava; per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo. E videmi e conobbemi e chiamava e cominciò, raggiandomi d’un riso. Pensa, lettor, s’io mi maravigliava come chi trova suo cammin riciso da quella parte onde ’l cuore ha la gente. Io mi volsi ver lui, e guardail fiso molto di là da quel che l’è parvente. E quelli: “O figiuol mio, non ti dispiaccia, ancor fia grave il memorar presente, ch’a così fatta parte si confaccia di ragionar coi buoni, o d’appressarsi”. E al maestro mio volse la faccia, oltre quanto potean li occhi allungarsi.

Il suo primo impulso fu quello di precipitarsi a scuola per comunicare la sua scoperta ai professori. Ma era già pomeriggio inoltrato e non avrebbe trovato nessuno. Cominciò a ragionare, però. E fu una fortuna, come sostiene ancora oggi l’ingegnere.

Al Liceo Machiavelli, allora in pieno periodo caccavelliano2, una mossa del genere lo avrebbe infatti esposto al grave rischio dell’interrogazione; e non dal posto (ché non usava, al punto che p9 i primi timidi tentativi in tal senso erano stati violentemente contestati, in nome della serietà dello studio, poco tempo prima sulle pagine del giornalino scolastico proprio da uno studente tra i più bravi3), ma alla cattedra; solo e sacrosantamente inquisito. La prospettiva era terrificante e le conseguenze sulla carriera scolastica imprevedibili.

Fu la seconda notte di passione. Diviso e incerto il Ciancaglini non riuscì a prendere sonno rigirandosi sotto le coperte fino all’alba. Anche perché, intanto, aveva letto e riletto il miracoloso canto e, per la verità, pur avendoci capito poco, ne era rimasto affascinato. Per questo, con manzoniana reminiscenza ginnasiale4, gli “sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta”. Ma non poteva rischiare. Al mattino la decisione era presa. Silenzio dunque: allora e per sempre.

Un tarlo interiore, tuttavia, una specie di pesantezza, pur nella volontaria rimozione della scoperta, dovette restare, se, come canno tutti quelli che lo hanno conosciuto, da quel mattino in poi il Ciancaglini fu perseguitato da un indisponente tic all’occhio destro che di tempo in tempo gli contraeva il lato della bocca, con improvviso trasalimento e rimbalzo di tutta la persona.

Gli ci sono voluti anni per trovare un qualche intimo accomodamento al disagio che continuava a gravare nel profondo. Non è bastato né l’amore, né il felice matrimonio. Non è stata sufficiente la nascita né della prima figlia, né del secondo. Neppure il successo nell’attività professionale e la stima e il benessere che ne sono derivati, sono stati sufficienti. Son dovuti passare più di quarant’anni perché i fili casuali del destino potessero p10 sciogliere, finalmente, l’arruffato nodo di sentimenti che allora si ingarbugliò, facendogli groppo nel fondo della coscienza.

Fu a una cena in casa d’amici comuni, una delle tante che punteggiano, da una settimana all’altra (talora anche due volte nei sette giorni) la vita del retto conversar cittadino lucchese, che conobbi l’ingegner Ciancaglini. Non ricordo chi, tra i convitati, accennò alla mia passione per la filologia e per il recupero di testi rari, antichi o dimenticati. Ripensado a quella circostanza, mi pare di rivedere ancora la specie di guizzo che gli balenò negli occhi al momento della presentazione e, subito dopo, lo scoppio smisurato del tic che lo squassò meravigliosamente da capo a piedi.

Fece in modo di sedersi accanto a me durante la cena e cominciò, prima con cautela, poi sempre più sciolto, e sempre più diradando le contrazioni nervose, a parlarmi della sua giovanile scoperta. Anche se tutto nell’ingegnere (il tono un po’ tremante della voce, il gestire eccessivo della mano, la serietà commossa dell’espressione) deponeva a favore della sua sincerità, dapprincipio restai piuttosto scettico e, pur con tutta la gentilezza di tratto che si deve usare quando ci si trova di fronte a qualcuno cui manca qualche rotella, mi mantenni sulle mie.

Ci demmo, comunque, appuntamento per il giorno seguente, alle quattro del pomeriggio, a casa sua: una villetta suburbana in stile liberty, come ce ne sono tante lungo il viale che circonda le mura della città.

Fui introdotto dalla signora nello studio dove l’ingegnere, teso ma anche, visibilmente, in via di progressivo rilassamento, dischiuse le ante di un modesto stipetto collocato in un angolo, e tirò fuori il vecchio libro un po’ sbertucciato da sotto gli altri libri e ammennicoli vari, evidenti ricordi degli anni giovanili. Era la solita edizione dell’Inferno col commento del Sapegno, edita dalla Nuova Italia, quella con la copertina bianca, in brossure, che nei secondi anni cinquanta (ma il successo durò con immutata intensità almeno per altri quindici-venti anni) copriva la quasi totalità delle adozioni dantesche nella scuola italiana.

Aprì il volume e, al passaggio fra il ventinovesimo e il trentesimo canto, ecco là, evidente, la grigiognola imperfezione.

Nella mezz’ora successiva potei assistere incuriosito a quella p11 specie di gioco degli ingrandimenti che l’ingegnere aveva predisposto per l’occasione con tutti gli effetti e la precisione di esecuzione che l’esperienza della sua professione aveva reso perfetti. Passammo ancora un paio d’ore insieme, con l’ingegnere entusiasta, finalmente liberato, che parlò quasi sempre lui, a ruota libera, senza prendere fiato. Restai abbastanza scettico, ma al momento di separarci, di fronte al suo entusiasmo non ebbi il cuore di rifiutare di portarmi a casa tutto il materiale, riservandomi di dare un giudizio più meditato sulla questione dopo avere analizzato e verificato con calma tutti i dati disponibili. C’era infatti il fondatissimo dubbio che si trattasse di un falso. Proprio questa, anzi, era l’ipotesi più probabile. È vero che la buona fede del Ciancaglini pareva fuori discussione, ma poteva essere stato, anni prima, vittima di una beffa. Geniale, però, e finissima, poiché presupponeva l’esistenza di una mente, non solo spiritosa, ma raffinatissima, capace di un tour de force letterario come quello dell’invenzione di sana pianta di un canto della Commedia secondo il tono e lo stile dell’autore (non avevo ancora realizzato, frastornato dai discorsi del mio ospite, la stupefacente circostanza che quei versi erano tutti di Dante) e in possesso di tecniche sopraffine di riduzione delle dimensioni del testo. Tutto questo rendeva l’ipotesi dello scherzo meno probabile. E, poi, a che scopo?

È pur sempre vero, comunque, che in Toscana, dopo i falsi Modigliani, c’è da aspettarsi di tutto e che in questa regione, per un’antica tradizione, le beffe, mai grossolane, non hanno altro fine che il piacere derivante dalla loro perfetta ed organizzata esecuzione.

Non mi dedicai subito all’analisi del materiale. Distratto da altri impegni, lasciai passare una quindicina di giorni. Poi, un pomeriggio, mi misi scetticamente al lavoro intenzionato a sbrigare la cosa il più velocemente possibile.

In primo luogo bisognava confrontare il Sapegno del Ciancaglini con quello che avevo in casa. Se sul mio, tra il XXIX e il XXX canto dell’Inferno, non fosse apparsa alcuna “imperfezione” la questione poteva dirsi risolta.

Ma l’imperfezione c’era. E, anche all’osservazione più p12 ravvicinata con la lente di ingrandimento, era di forma e caratteristiche esattamente corrispondenti. Restai di stucco di fronte all’assoluta improbabilità della circostanza e, spinto da non so quale impulso, mi ritrovai ad osservare febbrilmente gli spazi tra il XXIX e il XXX di tutte le edizioni della Commedia che possedevo.

Cominciai da quelle più recenti. È vero che ormai, da tempo, fra un canto e un altro, si saltava pagina e che, spesso, i canti erano chiusi da saggi conclusivi e aperti da introduzioni esplicative. Ma non era un ostacolo: se ci fosse stato qualcosa, questo qualcosa si sarebbe certamente trovato o nell’interlinea immediatamente successiva alle note che chiudono il ventinovesimo, o sul margine superiore della pagina con cui inizia il trentesimo. Fu lì, perciò, che concentrai la mia attenzione.

Le prime osservazioni non dettero alcun risultato: gli spazi bianchi tra i due canti erano e restavano decisamente immacolati. Così per tutte le edizioni e ristampe degli anni ’90 e’80 (anche quella stessa del Sapegno). E, a mano a mano che procedevo, mi distendevo e mi veniva da sorridere pensando all’inutile assillo che aveva condizionato l’esistenza del povero Ciancaglini. Potevo dunque voltar pagina e non pensarci più, salvo rendergli tutto il materiale con le spiegazioni del caso.

Ero anche un po’ deluso, però, e mi dispiaceva interrompere un lavoro a mezzo senza prendere in esame anche le edizioni precedenti. Buona regola scientifica vuole che si proceda sempre a tutte le verifiche, anche quando si prevede con quasi assoluta certezza che risulteranno inutili. Conoscendomi, sapevo anche che mollare a metà mi avrebbe provocato per qualche tempo una uggiosa sensazione di disagio.

Continuai dunque l’indagine andando a ritroso degli anni. E qui si verificò davvero l’imprevedibile: nell’edizione Le Monnier del ’79 a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio ecco, dopo il verso 139, nello spazio bianco sopra le due colonne delle note al testo, comparire di nuovo la fatale strisciolina. E poi, anche nell’edizione Angelo Signorelli a cura di Giuseppe Giacalone, del ’78 e, giù giù, oltre il testo del Sapegno del ’55, nell’edizione Hoepliana del 1929 a cura di Giuseppe Vandelli, nella sansoniana a cura di Tommaso Casini del 1902 (e nel primo commento dello p13 stesso, del 1887, così come in quello, insieme al Barbi, del 1889), fino all’edizione foscoliana (Londra 1842). Il fenomeno si verificava anche nelle opere omnia di Dante pubblicate prima degli anni ’80 (per es., in quelle delle edizioni Barbèra del 1925 e Mursia del 19655) e, persino nelle traduzioni della Commedia: quella in francese di Henri Longnon del 1966, e quella in inglese di Dorothy L. Sayers del 1949. E, in questi casi, la circostanza assumeva davvero il contorni del meraviglioso.

Appena mi fu possibile allargai l’indagine con ricerche di biblioteca e via Internet, tanto che nel giro di qualche settimana, potei appurare che il fenomeno si verificata, in tutti i testi stampati o compilati a mano fin dal XIV secolo6.

Ma perché dopo il 1980 non c’era più niente? Forse avevo guardato male. Ripresi perciò le edizioni successive a quell’anno, osservando con più attenzione. L’indagine non dette alcun risultato.

Ero perplesso di fronte a questa repentina e immotivata sparizione. Tuttavia, gettando lo sguardo sulla distesa disordinata dei volumi aperti sul tavolo da lavoro, ebbi a un tratto la sensazione che, a pagina 500 dell’edizione curata da Tommaso di Salvo7, lo spazio fra l’ultima nota al canto XXIX e il saggio conclusivo che segue fosse sfalsato di un rigo rispetto a quello consimile degli altri canti. Bisognava verificare. Una misurazione accurata confermò la circostanza.

Ripresi in mano tutte le altre edizioni più recenti e — miracolo — mi accorsi che in tutte si verificava la stessa anomalia8. Non poteva essere un caso. Pensai che proprio lì si potesse annidare p14 il canto nascosto. Purtroppo, però, questi piccoli spazi un poco dilatati non contenevano niente di osservabile. Sia a occhio nudo che con la lente restavano ostinatamente vuoti.

Ma non mi volevo dare per vinto: la sensazione che lì, proprio davanti a me, ci fosse qualcosa restava molto forte. Se non vedevo niente era perché, forse, non sapevo guardare secondo la giusta prospettiva o non usavo gli strumenti adatti.

Mi venne allora in mente che negli ultimi vent’anni la tecnologia aveva fatto passi da gigante nel campo della miniaturizzazione delle componenti elettroniche, e, più in generale, in quello della miniaturizzazione tout court. Si poteva dunque pensare che nel prodotto librario moderno la riduzione delle dimensioni del fantomatico canto fosse giunta al punto da poterne individuare la presenza soltanto con l’aiuto di tecnologie particolarmente avanzate.

Decisi perciò di mettermi in contatto con l’Istituto di Fisica dell’Università esponendo il mio caso. E qui trovai la collaborazione di una giovane studiosa incaricata dell’insegnamento di Fisica Osservazionale Comparata che si mise a mia disposizione con tutta l’attrezzatura scientifica necessaria. Fu un lavoro di messa a punto non facile e di reiterati tentativi. Ma alla fine balzò evidente il risultato: chiara, limpida, e anche ottimamente stampata, ecco lì di nuovo, davanti ai miei occhi, l’affascinante ingrandita perfezione delle dantesche terzine.

Si trattava adesso di fare una pausa per radunare e dare ordinae alle idee. La pubblicazione della scoperta era fuor di discussione. Ma, prima, era necessario indagare ulteriormente per dare persuasive e filologiche risposte a una serie di dubbi e di domande. Prima fra tutte quella relativa alle ragioni per cui, prima l’autore e poi tutti curatori ed editori successivi, avevano così accuratamente nascosto il misterioso testo. Possibile poi che, una volta deciso comunque di pubblicarlo non lo avessero p15 anche commentato e chiosato? Era dunque indispensibile mettersi alla ricerca di tutto il materiale che si poteva ragionevolmente presumere esistesse da qualche parte: probabilmente, come il testo dantesco, proprio nei libri che avevo sott’occhio, più o meno ridotto e stampato sui margini o fra gli spazi bianchi tra un rigo e l’altro dell’apparato critico.

Poiché ormai sapevo come e dove guardare non fu difficile trovare quello che cercavo. Valga per tutti l’immagine che segue tratta dall’edizione sansoniana del 19129. Riproduco il solito spazio di passaggio tra il XXIX e il XXX dell’Inferno:

ridere la fatuità sonese. — 135. sí che la faceta ecc. sí che il mio volto, da te ricono-
Dante. — 139. di natura buona scimia: valente contrafattore di uomini e di cose.

[smudge] —— [another, much larger, smudge]

CANTO XXX

I due poeti vedono tra i falsificatori di persone, che corrono via per la bolgia rabbiosamente, Gianni Schicchi e Mirra; tra i falsari di moneta,

Quello che, alla destra della dicitura “Canto XXX”, mi era sempre sembrato un segno lasciato dal tempo e dalle dita dei lettori sulla pagina invecchiata, è in realtà l’apparato di note del curatore, celato almeno quanto i versi del poeta che si intravedono a sinistra. Forse anche di più, poiché le note sono tradizionalmente stampate in corpo più piccolo. A maggior ragione, perciò, nelle edizioni moderne il fenomeno, per essere individuato, ha bisogno di apparati strumentali particolarmente sofisticati.

A quello punto, fatto emergere tutto il materiale nascosto, a partire dalle prime edizioni della Commedia del XIV secolo e dai commenti dei primi chiosatori, poteva cominciare, in vista della publicazione della scoperta, il lavoro di esegesi del testo, attraverso tutto il corredo di note indispensabili alla sua esatta compresione. Anche perché in alcuni punti Dante si esprime secondo moduli particolarmente ostici di trobar clus e con un p16 referente mai esplicitato in modo articolato, probabilmente perché ovvio e familiare ai suoi tempi, ma difficile da cogliere da parte di un lettore moderno. Bisognava anche, e sopratutto, dare ragione del sotterfugio del poeta e di di tutti i suoi secolari commentatori; poiché, davvero, si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a una specie di congiura del silenzio durata settecento anni. Che cosa si voleva nascondere? E in quale misura?

Si trattava di un impegno lungo e difficile; di quelli, comunque, che qualsiasi filologo sogna ogni volta che l’inevitabile destino del suo certosino lavoro lo confina nella penombra di fatiscenti biblioteche a scartabellare pagine polverose e muffite.

Ciò che segue è il risultato di questo lavoro, del cui valore e dei cui inevitabili limiti giudicheranno gli specialisti, insieme — si spera — a tutti i lettori colti e appassionati.

1   Si tratta della riproduzione del materiale originale che lo scrupuloso Ingegnere ha conservato e che, con squisita gentilezza, ci ha permesso di utilizzare. Per esigenze di spazio, si riproduce soltanto la parte di sinistra del documento.

2   Dal cognome del Preside, Alberto Caccavelli, che per alcuni, lunghi, anni diresse, come una specie di capitano del Bounty, quell’austera Istituzione. Notizie di prima mano sulla realtà di quel periodo si possono ricavare oltre che dall’Ingegner Ciancaglini e dalla sua gentile Signora, dalle testimonianze dei superstiti, alcuni dei quali anche conosciuti o, addirittura, illustri. Si citano, fra gli altri Giuliano Amato, più volte Presidente del Consiglio e Ministro della Repubblica, Francesca Duranti, scrittice, Giovanni Mariotti, scrittore, Eleonora Lucchesi (Lori), autrice di storie a fumetti, ma anche il Signor Armando Casali, titolare nel centro di Lucca di un famoso e antico locale drogheria-bar, e le signore Grazia Marchini e Italia Billè (questi ultimi tre, organizzatori della ormai tradizionale riunione annuale dei reduci di quell’epoca gloriosa). Notizie complessive su tutto l’argomento, con interessante corredo fotografico, si possono, comunque, trovare nel bel volumetto Il Grande Milvio, di Giorgio Marchetti, Akademos & Lim, Lucca 1991.

3   Si tratta dell’articoletto Sull’interrogazione, di Giuliano Amato, uscito, in taglio basso, sulla prima pagina de “Il Bonturo — numero unico di umanità machiavellica”, s.d. (ma 1955).

4   Si ricorda, per chi non lo sapesse, che a quei tempi per obbligo ministeriale, accolto perinde cadaver dai docenti, per tutta la durata della quinta ginnasiale si procedeva alla lettura maniacalmente accurata del romanzo manzoniano, cui erano dedicate la metà delle ore settimanali di lezione di italiano, come se invece di storia immaginaria, si trattasse di mondo vero e tangibile. Anzi più vero di quello vero, talvolta.

5   Il mirabolante canto si trova anche nella massiccia e famosa edizione ottocentesca a cura di Eugenio Camerini illustrata dal Doré, Sonzogno, Milano 1880). E bisognerà studiarla da vicino, per vedere se ci sono anche incisioni fin qui mai osservate. Ma è indagine e lavoro da fare a parte.

6   Per la bibliografia essenziale relativa si rimanda all’ultima edizione della Commedia a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze, 1985, pp. XX–XXIII, ma si vedano anche, fra gli altri, I commenti danteschi dei secoli XIV, XV, XVI di P. Procaccioli (www.lexis.it/dante.html) e The Dartmouth Dante project (www.princeton.edu/~dante2.html).

7   Cfr. La Divina Commedia, Inferno, Zanichelli, Bologna, 1985.

8   Fa eccezione solo l’edizione a 1.000 lire dei Tascabili Economici Newton (Roma 1993, p. 32), nella quale l’indicazione “Canto XXX” si trova sì a inizio colonna, ma non è abbassata. In questo caso, tuttavia, il testo nascento — ho appurato — è collocato proprio sopra la successione minuscola an della parola “Canto”, nello spessore lasciato libero dalla “C” maiuscola e la parte cuspidale della t. E il fatto non deve stupire date la esigenze tipografiche di risparmio di spazio e di carta proprie di questa lodevole iniziativa editoriale.

9   Cfr. La Divina Commedia di Dante Alighieri, con il commento di Tommaso Casini, 5a ed. accresciuta e corretta, Sansoni, Firenze.

Il Centunesimo Canto

p17

Per Dante il 1301 fu l’anno cruciale: da quel momento in poi le cose gli andarono tutte storte. Nel novembre l’esilio e l’accusa di baratteria, cioè di truffa ai danni del Comune1, nel gennaio successivo cinquemila fiorini di multa, due anni di confino e l’esclusione in perpetuo dai pubblici uffici, a marzo la condanna al rogo se, senza autorizzazione, avesse rimesso piede nel territorio del Comune: “igne comburatur sic quod moriatur”2, diceva l’ordinanza. Ce n’era abbastanza per mollare tutto e gettarsi alla macchia o rinchiudersi in convento.

Ma Dante non era uomo da darsi per vinto di fronte alle avversità. Conscio dell’ingiustizia subita e del suo buon diritto, cercò di resistere e, “come torre ferma che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti”3, con i compagni di sventura si dette subito da fare per risalire la china e riacquistare con tutti i mezzi il patrimonio e la condizione che aveva perduto.

La matassa politica era ingarbugliata. Numerose le parti e complessi e consistenti gli interessi in gioco. E in questo puzzle il poeta ebbe funzioni e rivestì subito incarichi di primo piano e anche delicati. Per dare un’idea: nel giugno dello stesso 1302, è inviato a San Godenzo nel Mugello ad un incontro per “dar garanzia agli Ubaldini pei danni che avrebber potuto ricevere”4 dalla guerra dei Bianchi contro Firenze; l’anno successivo è a Forlì come segretario di Scarpetta degli Ordelaffi, capitano dei fuorusciti, e a Verona come ambasciatore presso gli Scaligeri; nel 1304 è uno dei dodici consiglieri di Parte Bianca “durante le trattive di pace fra Firenze e gli esuli condotte dal cardinal da Prato”5 per incarico di papa Benedetto XI.

Tuttavia, nonostante tutto questo agitarsi, non cavò un ragno p18 dal buco. Anzi non si trovò neppure in sintonia con i suoi stessi compagni. Senza peli sulla lingua dovette esprimere più volte dubbi, contrarietà, perplessità e disaccordo nei confronti delle loro manovre. Non stupisce: chi ha letto la Commedia si è fatto certamente un’idea del caratteraccio dell’uomo. Probabilmente era nel giusto, ma non doveva ispirare particolare simpatia. Così quando nel luglio 1304 la disastrosa conclusione dell’ “infausta impresa della Lastra”6, parve confermare le sue ragioni, fu inevitabile che di fronte al suo “ve l’avevo detto” (pare di vederlo), i fuorusciti delusi7 se la prendessero con lui: il saccente criticone diventò un ottimo capro espiatorio. Dante si trovò sulle spalle anche l’accusa pretestuosa di “defezione e di tradimento”8. E questa volta da parte dei suoi. Era la catastrofe: persa ogni speranza di rimpatrio, rotti i ponti con tutti.

Che fare, oltre che prendersela contro i suoi compagni di avventura e la “bestialitate” della loro “compagnia malvagia e scempia”9? Certo, sfogarsi a parole è meglio che niente e dà comunque sollievo, ma non risolve le situazioni. Dovette perciò p19 rassegnarsi e fare di necessità virtù, che è quanto a dire “fare parte per se stesso”10, forse anche autoconvincendosi che fosse effetto di libera scelta quella che invece fu probabilmente una strada obbligata.

Cercò allora pace e refrigerio nell’intelletto e nella scrittura. Non più però le dotte poesiole amorose del periodo precedente, bensì due ponderosi trattati, l’uno di enciclopedica dottrina, l’altro di monografica specializzazione: il Convivio e il De vulgari eloquentia. L’uno in volgare, l’altro in latino. Li mette in cantiere nella seconda metà del 1304, e non c’è dubbio che rappresentino, per la mole stessa dell’impresa, una orgogliosa reazione all’avverso destino. È come se volesse dire al mondo, dopo lo smacco e l’umiliazione subita: “qui si parrà la mia nobilitate”11, “guardate chi sono e che cosa son capace di fare”. Questo era l’uomo.

Ma dedicarsi nello stesso tempo a due differenti campi di studio e usare due lingue diverse fu certamente anche il rimedio escogitato contro la disperazione, l’inerzia forzata e la noia che dovette assalirlo dopo il frenetico attivismo degli anni precedenti. Insomma sembra quasi che si sia voluto gettare a capofitto in una specie di full immersion filosofica e linguistica, nel tentativo di annegare, o almeno di attenuare, l’impatto del dolore e dei dispiaceri12.

Le cose, però, non andarono meglio. Dopo due anni e mezzo di studio matto e disperatissimo, di scrittura, “di ripiegamento e di meditazione”13, i due lavori abortirono e furono lasciati a metà14. Deve essere stato il punto di crisi più basso e desolato p20 della sua vita.

Anche stavolta, però, reagì. Quasi subito, infatti (siamo sui finire del 1307), “prese forma nella mente di Dante e fu intrapresa alacremente la stesura della Commedia15 col rassicurante messaggio di divina giustizia e carità che promana dalla forma nella quale fino ad oggi l’abbiamo conosciuta. Basta dare i numeri: 33 + 33 + 33 + 1 = 100 canti. Unità e trinità. Potenza cabalistica e dottrinale delle cifre. Visione complessiva del mondo come struttura certa, armonica e chiusa, a immagine e somiglianza di Dio e a Sua maggior gloria. Realizzazione suprema e perfetta della Sua volontà e della Sua potenza. Rassicurante certezza della completa coincidenza delle leggi fisiche e morali di questo universo.

Insomma, così come è sempre apparsa, la Commedia, rappresenterebbe una specie di reazione consolataria, fortemente cercata e voluta con un supremo scatto di ottimistica volontà, di fronte a quello stato di sfiduciato accasciamento della ragione che angustiava il poeta di fronte all’evidenza innegabile delle ingiustizie e dei mali di questo mondo. Oltretutto subiti direttamente sulla sua pelle. E lo avrebbe fatto, come sempre, a suo modo: ergendosi orgogliosamente al di sopra della comune meschinità e servendosi dell’occasione per soddisfare sdegnosamente l’intimo bisogno di apparire e di contare per mezzo di “una rappresentazione e un giudizio del mondo degli uomini” che avesse “l’autorità e la diffusività necessarie”, da ottenere attraverso un’ “opera di divulgazione [...] tanto evidente che a nessuno sarebbe potuta sfuggire”16. In conclusione, per dirla con più semplicità: il poema sarebbe stato un modo per restare personalmente a galla ed emergere creando audience attraverso un medium popolare di grande diffusione e di grande impatto emotivo, già a suo modo audiovisivo, come diremmo oggi: la p21 musica del verso e l’efficacia della rappresentazione per immagini da creare nella mente dei lettori.

Ma se si aggiunge un canto?

Continuiamo a dare i numeri: 100 + 1 = 101. Numero primo. Discordanza, disomogeneità, molteplicità. Struttura atomizzata in 101 parti. E perché, allora, non 103, o 107, o 117? Attrito, casualità, disordine. Immagine improponibile di un Dio di natura caotica, di volontà imprevedibile, di volpino potere. Inquietante incertezza di leggi fisiche e morali.

Questo potrebbe essere, dopo la scoperta del canto nascosto, il devastante messaggio poco simpatico e poco emotivamente popolare della Commedia, dettato, dopo la débacle degli anni precedenti, dall’umor nero del poeta e dal pessimismo della ragione17. Non dall’ottimismo della volontà. A patto che si possa dimostrare che esso è parte integrante del poema.

Certo, lo sconfortante e desolato contenuto del Canto (la salvezza e l’assunzione in cielo di un dannato!), fa a pugni col trionfante a giustizialistico rigore divino della Commedia messo in epigrafe fin dall’inizio sull’architrave della porta infernale: “lasciate ogni speranza...”18. Verrebbe quasi da pensare all’irriverente intrusione nel poema di un autore diverso. Non fosse che tutti i 151 versi che compongono il Gruccio sono indiscutibilmente di mano del poeta, poiché rintracciabili esattamente19 fra quelli dei cento canti tradizionali20; che esso è inserito nel corpo dell’opera fin dalle primissime edizioni manoscritte; e che tutti i chiosatori e i commentatori che lo hanno (sebbene di nascosto) dottamente analizzato non ne hanno mai messo in discussione p22 la paternità (a cominciare, nel 1322, da Iacopo Alighieri, figlio del poeta).

Allora, se il Canto è originale, come è possibile pensare che il poeta lo abbia infilato nella Commedia senza valutare tutte le conseguenze di stridente disequilibrio estetico e morale che se sarebbero derivate per l’intera opera, azzoppata nella sua bella armonia contenutistica e formale? Nessun scrittore commetterebbe una simile enormità. Figuriamoci Dante.

Ma il Canto c’è, ed anche collocato in un luogo del poema non casuale. Anzi, verrebbe da dire strategico. Fa la sua nebulosa comparsa subito dopo l’episodio di Capocchio, il falsario, esempio sublime di capacità miniaturrizzante, di cui il “Benvenuto narra che una volta dipinse sulle proprie unghie con grande arte tutta la storia della passione”21. Pare proprio una pulce nell’oriecchio, una traccia lasciata dal poeta in modo da essere ragionevolmente sicuro che a qualcuno, prima o poi, sarebbe venuto il ticchio di osservare meglio quel grigiognolo ma ordinato sbaffetto occhieggiante tra un canto e l’altro, di individuarne la natura e di riportarne il testo a ragionevole dimensione tipografica, invertendo i procedimenti dell’antico peccatore.

Ci deve essere, dunque un rapporto di stretta e funzionale necessità tra il Canto e la Commedia la cui natura a prima vista ci sfugge. Ma proprio il sotterfugio del nascondimento insieme alla determinazione del momento in cui il testo fu composto può chiarire il problema.

Cominciamo dal secondo aspetto e ipotizziamo, per un momento, che Dante abbia scritto il Canto subito dopo aver fissato sulla carta, con un segno svolazzante e un sospiro di p23 sodisfatto sollievo, l’ultima parola della Commedia. Saremmo, grosso modo, nell’estate del 1321. È possibile ragionevolmente immaginare che, dopo il testo e concentrato strapazzo del trentatreesimo del Paradiso, egli abbia avuto l’ubbia pazza e faticosissima di ricavare, subito, dal compiuto e rotondo poema un incredibile centone rispettandone rime e struttura terzinata? E a che pro? Per dire quello che voleva, avrebbe potuto con più agio e libertà comporre un canto ex novo. È una considerazione dettata dal buon senso che, unita al breve tempo che ebbe a disposizione (al massimo un paio di mesi prima che la morte lo sorprendesse nella notte fra il 13 e il 14 settembre) e alla presenza di tre versi del Gruccio già in Inf. I, basta ed avanza per escludere che la stesura dell’opera sia avvenuta allora.

All’estremo opposto bisogna anche escludere che il Canto sia opera composta in età ancora abbastanza giovanile: diciamo prima del 1295, anno di svolta nella vita del poeta. Come si concilierebbe, infatti, il suo evidente e cupo contenuto politico e morale con la spensieratezza birichina e sregolata del periodo precedente, quello delle “chiassate nelle strade e nelle osterie” della città, della “vita brillante e amorosa”, della frequentazione “di amici brillanti per intelletto e spesso per grande nascita”22? Come si può pensare che nella mente di Dante, in mezzo a questa gozzoviglia, potessero nascere nere meditazioni sull’ingiustizia del mondo e di Dio e squarci di visioni infernali? Non si può neanche presumere un momento di depressione, effetto di una qualche caduta nell’abisso della delusione amorosa23: Beatrice era morta nel 1290, era stata idealizzata nella Vita nuova e pericoli di tradimento da quella parte non ne potevano più venire.

Ma dagli ultimi mesi del ’95 Dante — come diremmo oggi — scende in politica. Il Canto potrebbe essere la rabbiosa e sdegnata reazione di chi per la prima volta prende contatto con un tale mondo e coi personaggi che ci nuotano dentro. Non fosse p24 che anche lui ci nuotò egregiamente, ricoprendo una dopo l’altra cariche importanti fino all’apice del potere: i due mesi di Priorato dal giugno all’agosto del 1300. Perché mai, dunque, di fronte a questi successi avrebbe dovuto avere pensieri e meditazioni man che fiduciose e solari? Bisogna perciò escludere anche questa collocazione.

Poi, come si è visto, cominciano i guai. Sopravvivono, però, fino al 1304 le speranze politiche e, fino al 1307, quelle — a dir così — letterarie. Ma poiché di speranze di qualsiasi tipo nel Canto proprio non ce ne sono, va eliminato anche questo periodo.

Solo con la seconda metà del 1307 tutto si chiude. Per questa ragione i mesi o i giorni che precedettero lo scatto del poeta che prese in mano la penna per vergare la prima parola della Commedia, sono probabilmente proprio quelli che cerchiamo.

Allora il Canto non sarebbe che la testimonianza diretta e bruciante di un breve, anche se abissale, momento depressione presto superato? Le cose starebbero certamente così se esso non facesse parte del poema. Invece esso fa parte del poema. È presente addirittura due volte: la prima dispersa nel mare magnum degli altri cento canti; la seconda ridotta e condensata nel luogo che conosciamo. E ciò esclude ogni interpretazione riduttiva del suo significato nel quadro generale della vicenda intellettuale e letteraria dello scrittore. Non può essere ritenuto semplicemente la casuale traccia di un anomalo e passeggero sbandamento. Quella presenzia dimostra che Dante voleva che il Canto restasse e che fosse conosciuto. Gli attribuiva una funzione e un senso importanti e duraturi.

Ma se le cose stan così, bisogna concludere che quegli stupefacenti e intriganti centocinquantuno versi indicano addirittura un modo di sentire e di vedere le cose di questo mondo (e anche di quell’altro) ormai definitivamente orientato verso la sfiducia e segnato dal più cupo pessimismo che Dante, dato il carattere dell’uomo con l’alta considerazione che aveva di se stesso, non poteva tenersi dentro. Doveva diventare un messagio all’umanità. E poi, forse, era anche spinto da una più banale necessità: quella di sfogarsi, buttando fuori quello che gli faceva groppo nell’animo e nodo in gola. Come capita a tutti. Ed è un tratto, questo, che renderebbe più accostabile e simpatica la sua p25 arcigna figura.

Perché, però, non ha diffuso subito pubblicamente le sue conclusive certezze, e le ha invece nascoste rendendone complicata la scoperta? Sembra una contraddizione. Ma ragioniamo, senza pretendere, neppure da Dante, coerenze ferree ed astratte quando si tratta, per lui come per ognuno di noi, di fare i conti con le concrete aspirazioni della vita reale o, addirittura, con la propria pelle.

Il De Monarchia (ca. 1312) non è, almeno all’apparenza, un libro particolarmente dirompente: è vero che cerca di dimostrare la reciproca autonomia del potere temporale e di quello spirituale e, di riflesso, l’autonomia della ragione rispetto alla religione, ma lo fa in latino ed anche con molte cautele. Tuttavia alla Chiesa non bastava, gli sembrò evidentemente una specie di trappola razionale, puzzava d’imbroglio; per questo l’opera “fu condannata al rogo nel 1329 da papa Giovanni XXII”24. Erano passati appena otto anni dalla morte del poeta. Se questo era il raccapricciante rigore dell’inquisizione, che cosa sarebbe accaduto nel 1307 al Canto (e al suo autore) una volta venuto alla luce del sole col suo sproposito dottrinale che somiglia molto a una bestemmia? Sul punto di pubblicarlo Dante deve aver proprio sentito tintinnar di strumenti di tortura e odore di brucciaticcio e deve essere stato travolto dalle stesse paure che attanagliarono tre secoli dopo un altro grande, Galileo.

E poi, anche a voler correre quel pericolo, Dante non poteva non rendersi conto del fatto che quelle idee erano in contrasto così radicale con quelle correnti nel suo secolo, che se le avesse mostrate apertamente avrebbe gravemente sofferto. E alla fama teneva molto25. Umana, ma comprensibile debolezza: non si può pretendere da tutti l’eroica accettazione leopardiana dell’oblio che inevitabilmente “preme chi troppo all’età propria increbbe”26.

Così non avendo il cuore di distruggere la propria opera27, p26 e volendo salvare capra e cavoli: cioè la vita, la fama e la testimonianza coerente e coraggiosa del suo pensiero, Dante escogitò la bella trovata del nascondimento.

E poiché, come ho osservato, il Canto compare due volte con due maniere diverse di camuffamento è probabile che le cose siano andate così: in un primo momento il poeta, resosi conto della dirompente enormità delle sue conclusioni ma anche, e immediatamente, del pericolo che esse rappresentavano per la sua incolumità personale, decise di nascondere l’opera diluendone i versi in un contenitore più grande: i cento canti, appunto, di un immenso poema. Si mise perciò all’opera. Ma, dopo la titanica fatica durata del 1307 al 1321, si dovette accorgere che il Canto, così disciolto, non era più né individuabile né ricostruibile a posteriori. Anche perché, come dimostrano le variazioni ai versi 23 e 24, aveva dovuto cancellare ogni traccia del nome di Gruccio, troppo pericoloso anche soltanto da sussurrare. Il personaggio era tale che, nonostante gli anni passati dalla morte, poteva ancora allungare la sua longa manus.

Così, dopo quasi tre lustri di duro lavoro al “poema sacro” che lo aveva “fatto per molti anni macro”28, si rese conto di aver ottenuto lo stesso effetto che se avesse subito bruciato o distrutto quei cruciali centocinquantuno versi. Deve essere rimasto di sasso. Che fare? Gettare le tre cantiche alle ortiche e trovare un’altra soluzione? Era alla fine della sua vita, stanco e anziano, non poteva ricominciare da capo. Allora, salvando un’opera che gli era costata sangue e lacrime, escogitò un ripiego capace di dargli la sensazione di non aver gettato al vento gli ultimi quindici anni della sua esistenza. Decise di ridurre le dimensioni del Gruccio e di inserirlo in un punto qualsiasi tra un canto e l’altro del poema. Certo, la soluzione era grigia, generica e banale. Ma qui ebbe ul ultimo guizzo di astuta creatività: si ricordò di p27 Capocchio, l’abilissimo alchimista che aveva dovuto mettere all’inferno anche se era stato suo compagno di studi29, e capì che lo spazio bianco tra il XXIX e il XXX dell’Inferno era il luogo destinato da sempre alla traccia da fornire ai futuri solutori dell’enigma. Si ricordò delle alchemiche tecniche miniaturizzatrici di cui l’amico era stato così geloso30, e delle quali aveva carpito il segreto nel periodo della sua frequentazione. Fu un lavoro di fino, da finircisi gli occhi, fare entrare il canto in quel piccolo spazio; ma, quando ebbe ricopiato accuratamente l’ultimo segno e fece un passo indietro per valutare l’effetto complessivo, sorrise soddisfatto. Ora poteva finalmente morire in pace: la fatica di quindici anni non era andata sprecata e la Commedia continuava a restare, come nelle intenzioni iniziali, l’immensa e perfetta maschera-contenitore (anche se con qualche smagliatura rivelatrice31) della sua vera weltanschauung, figurativamente definita una volta per tutte dall’incontro infernale con Gruccio.

Il legame strettissimo e necessario tra le due opere non sta dunque in una qualche coerenza dottrinale e ideologica o di equilibrio formale che possa essere, anche forzatamente, individuata. Sta, più banalmente, in una necessità pratica e materiale ineludibile. Restano naturalmente intatti, del poema, la tonda armonia, la bellezza sublime e il fenomenale valore formale, i quali — in questo come in tutti i casi dell’arte, quand’è arte — sono assolutamente indipendenti dalle questioni contingenti che p28 hanno scatenato l’estro compositivo, immaginifico e creativo, provocando: nell’autore la soddisfazione artigiana della concreta e palpabile realizzazione; nei lettori, durante sette secoli, il piacere che deriva dalla suprema meraviglia di quei versi.

Che non avremmo goduto se non ci fosse stato, prima, il Centunesimo canto.

Capite le ragioni di Dante, resta ora da indagare il motivo per cui, da subito, tutti i commentatori e tutti gli editori si sono sempre guardati bene, tutti, dal portarlo alla luce del giorno, mantenendolo e mantenendo i propri interventi nel limbo di grigiognoli aloni marginali o interlineari. Eppure si erano, tutti, ben resi conto della sua presenza. Come potrebbero, altrimenti, gli uni averlo sempre pubblicato, gli altri sempre dottamente o esteticamente chiosato?

È sempre stata buona regola dell’editore (e del copiatore e dello stampatore) riprodurre il materiale che gli veniva fornito esattamente secondo l’aspetto, le indicazioni e le caratteristiche volute dall’autore, indipendentemente dalla difficoltà, dal senso o dai giudizi di merito. L’intervento di editing è prassi del tutto moderna. È, d’altro lato, ferrea legge filologica il rispetto assoluto del testo originale per mantenere intatti il pensiero e le intenzioni dell’autore o ricostruirne il senso e la forma più probabili laddove essi siano incerti.

Ma bastano queste considerazioni a spiegare il fenomeno? Saremmo davanti a un esempio di tale costante, ferreo rispetto delle regole del mestiere durato sette secoli che non si è mai viste al mondo. Ci deve essere sotto qualcos’altro.

Probabilmente, almeno fino al tutto il XVII sec., non ci sono particolari misteri e la spiegazione di quel comportamento è abbastanza ovvia: in quel lungo lasso di tempo la rigidissima applicazione delle regole professionali è stata certamente determinata dalle stesse paure e dalle stesse questioni pratiche di sopravvivenza proprie di Dante di fronte alle durezze dell’inquisizione. Poiché, tuttavia, editori e commentatori, per togliersi da tutti gli impicci, avrebbero potuto più agevolmente trinciar via tutto, e non l’hanno fatto, bisogna proprio dire che l’aver scelto di mantenere in vita il Canto, sia pure attraverso quella specie p29 di compromissoria mediazione fra l’etica del mestiere applicata allo spasimo e la necessità contingente di salvare la pelle, fu atteggiamento disinteressato e coraggioso. Vanno dunque apprezzati. Se oggi possiamo leggere questo Dante, lo dobbiamo a loro.

Ma dopo, quando quella morsa, nei suoi aspetti più raccapriccianti e violenti, si allentò e infine scomparve, perché si continuò per altri tre secoli sulla stessa via? Forza dell’abitudine e di una bizzarra tradizione corporativa secolare ormai consolidata?

Anche se — va detto — non sarebbe il primo caso in cui capita di vedere teorie di individui “andar l’uno dietro l’altro come le pecorelle di Dante”, secondo un “effetto comunissimo [...] dello spirito di corpo”32, la spiegazione è dura da accettare. Sotto sotto resta una sgradevole sensazione: l’impressione che il persistente occultamento del Canto anche in epoca moderna abbia cause più fonde e sostanziose. Non si tratta, infatti, dell’opera di uno scrittore qualsiasi, anche molto famoso (che so? un Boccaccio, un Ariosto, un Machiavelli, un Foscolo, un Leopardi). Si tratta dello scritto di un autore molto più decisivo per la cultura nazionale; o, meglio, per un certo modo largamente condiviso, e non sempre adeguatamente confutato (verrebbe da dire combattuto), di intendere la cultura nazionale.

Sono state due le opere centrali e indiscusse nel quadro dell’educazione dei nostri giovani dall’unità in poi: I Promessi Sposi e, la Divina Commedia33, ambedue di autore cattolico, che nei programmi scolastici hanno fatto (e continuano largamente a fare) la parte del leone come testimonianze ineludibili della realtà e dei valori propri di questo mondo34. Di tutto il mondo e di tutta l’umanità, secondo la vocazione universale rivendicata p30 dalla Chiesa di Roma.

Quali sarebbero state le conseguenze se, metti nel 1871 — ma anche nel 1929, o nel 1947 o nel 1984, tanto per citare delle date a caso — il fatale canto fosse a un tratto balzato fuori dalla grigia nebulosità del suo nascondiglio facendo scricchiolare pericolosamente uno dei due pilastri educativi? Quali gli effetti dal punto di vista della Curia romana? E quali da quello del potere laico? Dirompenti, senza dubbio, e ugualmente deprecabili sia dall’uno che dall’altro perché il nostro è un bizzarro paese.

Valga per tutte la seguente testimonianza di Pasquale Villari del 1872:

Noi siamo persuasi che il clero è nemico dei principii coi quali l’Italia si è fondata, e su cui la società moderna riposa. Vogliamo escluderlo dalle Università, vogliamo che si chiuda ne’ suoi seminari, né c’importa di sapere se e come studia e s’educa [...] Se il Ministro chiude una scuola secondaria o elementare di frati o di monache, se propone di sopprimere gli avanzi delle nostre Facoltà teologiche, un’aura popolare si leva in suo favore, e la pubblica opinione sembra unanime nell’approvarlo. Ma se i Barnabiti o altri dei soppressi ordini religiosi aprono una scuola, un convitto, gli alunni s’affollano subito, e i pretofobi vi mandano i loro figli, disertando le scuole laiche.

La ragione di questo comportamento? Eccola con qualche aggiunta:

Uno dei discorsi che più spesso si ripetono tra noi è questo: — Io ho fede nella ragione e nella scienza solamente; ma se dovesse avere una religione, non vorrei mutare quella de’ miei padri. Se un’autorità ci deve essere, piglio quella assoluta del Papa, perché almeno è la più logica di tutte [...] Quantunque io non ci creda, pure voglio che mio figlio sia educato nella religione, perché una volta almeno nella vita bisogna aver creduto. Verrà bene l’età della ragione e allora capirà [...] Quanto a mia moglie e a mia figlia, però, la cosa è assai diversa. Io lascio che vadano alla p31 Messa ed al confessore, perché amo la tolleranza, e perché non mi fiderei di una donna senza religione35.

Tutto questo mette il dito sulla piaga o — se si vuole — meno polemicamente, è l’esatta individuazione delle correnti più fonde, costanti e rassicuranti della storia italiana: emblematicamente rappresentate, in mezzo alla generale mutabilità di regni, ducati, granducati e repubbliche, dalla luminosa e immutabile presenza del governo papale. Forza possente, codesta, capace di volta in volta di terrorizzare e di convincere, di imporre con l’anatema e di innamorare con benedicente sorriso. Capace, nel nostro paese, di ottenere due Concordati (e il secondo anche piuttosto recente).

E i chiosatori, i filologi, gli editori avrebbero dovuto avere il coraggio “rivoluzionario” di smentire a viso aperto la visione tradizionale del poema sacro di Dante36 mettendosi contro la secolare potenza di quel Leviatano? La pretesa, più che assurda, mi pare grottesca. Intendiamoci: non intendo cancellare la responsabilità di queste categorie, dico solo che bisogna almeno riconoscer loro le attenuati.

Ma — si potrebbe obiettare — neppure uno di quegli editori, chiosatori ecc. ha avuto il coraggio dello scoop? Ne sarebbe bastato anche uno solo! Un temerario si trova sempre.

E invece no. Non ce n’è stato neppure uno. E la circostanza non è neanche particolarmente improbabile dal punto di vista statistico: anche a far le somme dal ’300 add oggi il loro numero complessivo resta sostanzialmente limitato.

E, poi, non sarebbe bastato. Non prima, ai tempi scuri dell’inquisizione — ed è ovvio — e neppure dopo, con l’avvento del secolo dei lumi, che, insomma, nel nostro paese, si concluse con i lazzaroni, guidati dal cardinal Ruffo, a fare entusiasticamente a pezzi i poveri giacobini napoletani (era il 1799).

Ma neppure oggi uno che avesse quel coraggio la passerebbe p32 liscia: certo non finirebbe arso o fatto a pezzi, ed è già un bel progresso. No. Il coraggioso filologo sarebbe invitato in televisione ad una trasmissione di successo e lì sarebbe fatto efficacemente passare per un fazioso mangiapreti o anche, con maggiore sadica finezza, per un bizzarro un po’ matto, comica caricatura, sul piccolo schermo, della serietà metodologica e dell’autorevolezza scientifica del filologo comme il faut.

Perché, dunque, stupirsi del fatto che né un critico né un editore abbia voluto mai mettere apertamente a rischio se stesso o la propria reputazione? Non è invece davvero miracoloso che tutti abbiano continuato a stampare il canto di Gruccio mimetizzato e rimpiccolito e sempre accuratamente annotato? Sotto molti aspetti era davvero il massimo che si poteva fare, testimonianza, a suo modo, di eroica filologica resistenza.

1   Era l’accusa abituale che colpiva gli avversari politici. È quasi certo che Dante fosse innocente. Ma la natura dell’imputazione fa ugualmente pensare che Firenze fosse allora una specie di moderna tangentopoli.

2   “Sia arso vivo fino alla morte”

3   Cfr. Purg. V, 14–15.

4   Cfr. M. Barbi, Dante, vita, opere e fortuna, Sansoni, Firenze, 1933.

5   Ibid.

6   L’espressione è di N. Sapegno nella nota al v. 62 del XVII del Paradiso. In quell’occasione i Bianchi nel tentativo di rientrare a forza a Firenze, guidati dal giovane comandante Baschiera Tosinghi, furono disastrosamente sconfitti sul campo di battaglia dalle schiere dei Neri fiorentini nei pressi della località che oggi si chiama Lastra a Signa, a pochi chilometri dalla città.

7   Ci sarebbe una bella espressione vernacolare livornese per definisce in maniera pittoresca e più efficace quello che probabilmente fu in quel momento lo stato d’animo e l’atteggiamento degli sconfitti: “ciavévano le garge motose”. Spiega G. Marchetti ne Il Borzacchini universale — Dizionario Ragionato di lingua volgare, anzi volgarissima, d’uso del popolo alla fine del secondo millennio, Ponte Alle Grazie, Firenze, 1996: “garge” è “termine prettamente livornese usato solo al plurale. Esso indica in particolare l’apparato esterno delle bramchie dei pesci, dall’esame del quale gli esperti erano in grado di vaticinare sulla freschezza e sulla commestibilità dei pesci medesimi. Il pesce che presentava, ad esempio, le ‘garge motose’ proveniva da acque fangose e probabilmente inquinate e quindi era da scartare. Per traslato si è dato luogo alla locuzione figurata ‘aver le garge motose’ riferita a persona che avesse qualcosa da nascondere in merito alla propria condotta morale [...]. Sempre in tal senso si denotava un eccesso di giustificazione da parte di chi sembrava aver qualcosa da farsi perdonare”.

8   Cfr. Barbi, cit.

9   Dante dovette davvero legarsela al dito. Quelle citate sono, infatti le parole che il poeta userà una quindicina d’anni dopo (Cfr. Par. XVII, vv. 68 e 63), testimonianza della profondità e dell’intensità di una ferita che bruciava ancora e che il tempo non aveva assolutamente rimarginato.

10   Ivi v. 69.

11   Cfr. Inf. II, 9.

12   A proposito di questo stato d’animo, vengono in mente le universali considerazioni del leopardiano Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, laddove si osserva che “la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce”. È significativo che il povero Tasso si lamentasse in particolare del fatto che nella sua prigione gli fosse stato tolto “eziando lo scrivere”. Sapeva bene, infatti, che questa sarebbe stata una attività capace di scemargli “in alcuna parte il carico della noia” (cfr. G. Leopardi, Operette morali, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 1979, a cura di O. Besomi).

13   Cfr. N. Sapegno, Dante Alighieri, in “Storia della Letteratura Italiana, II, Il Trecento”, Garzanti, Milano, 1965.

14   Per l’esattezza si interrompono rispettivamente dopo il quarto Trattato e dopo il quattordicesimo Capitolo.

15   Cfr. Sapegno, Dante Alighieri, cit.

16   Cfr. B. Cordati, Nota conclusiva a Dante Alighieri, Convivio, Loescher, Torino, 1968.

17   Perseverando nel dare i numeri, si potrebbe anche osservare che la collocazione del canto di Gruccio dopo il XXIX dell’Inferno porta il numero tradizionale delle bolge (un bel 10 rotondo) a 11, altro numero primo, aggiungendo alle altre quella che potremmo definire la “Bolgia dell’Impenitente”.

18   Cfr. Inf. III,9.

19   L’unica variante di rilevo è quella dei vv. 23–24, che sono, significativamente, proprio quelli che contengono il nome del personaggio. Per il resto si notano solo differenze sul piano dei segni diacritici. Ma questo, volendo il poeta usare quei versi in un contesto diverso, era pressoché inevitabile.

20   Vedi Appendice I. Da essa si ricava che i canti della Commedia che contengono versi del Gruccio sono 81, così suddivisi nelle tre cantiche:
Inf. 1, 2, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 15, 16, 17, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 27, 28, 30, 31, 32, 33, 34
Purg. 1, 2, 3, 4, 6, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 19, 20, 23, 24, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33
Par. 1, 4, 5, 7, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33.

21   Cfr. La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, 1955. Benvenuto riferisce così l’episodio: “Semel die quodam Veneris sancti cum staret solus abstractus in quodam claustro, effigiavit sibi totum processum passionis Domini in unguibus mira artificiositate; et cum Dantes superveniens quaereret: ‘Quid est hoc quod fecisti?’, iste subito cum lingua delevit quicquid cum tanto labore fabricaverat. De quo Dantes multum arguit eum” [una volta, di Venerdì Santo, standosene seduto tutto solo in disparte in non so quale chiostro, Capocchio si era dipinto sulle unghie delle mani, con stupefacente maestria, tutti gli episodi della Passione di Nostro Signore. Ma quando Dante, capitato lì per caso, gli chiese che cosa avessse fatto, lui immediatamente cancellò con la lingua tutto quello che aveva miniato con tanta fatica. Il poeta lo redarguì molto].

22   Cfr. la voce “Alighieri” di B. Cordati in D.A.I. Dizionario degli Autori Italiani, D’Anna, Messina–Firenze, 1973.

23   Che ognun sa a quali estremi di desolata disperazione possa, almeno momentaneamente, portare: “Credete a chi n’ha fatto esperimento, / che questo è ’l duol che tutti gli altri passa”, dice l’Ariosto nel XXIII dell’Orlando furioso (cfr. ottava 112)

24   Cfr. B. Cordati in DAI e in Nota conclusiva al Convivio, cit.

25   Vedi, in Par. XXV, 7–9, l’auspicio di rientrare nella sua Firenze dove con altra voce, omai, con altra vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello.

26   Cfr. G. Leopardi, La ginestra.

27   Neppure Dante, infatti, si poteva sottrarre a quella legge universale e naturale secondo cui “un autore non distrugge mai niente di quello che scrive, di qualunque cosa si tratti, fosse anche uno scarabocchio. È più forte di lui” (cfr. L. Chiti, L’infinito futuro. Sillabe in crescenza, Biblioteca Oplepiana Num. 15, Bari, 1999).

28   Cfr. Par. XXV, 1–3.

29   “fu conoscente dell’auttore et insieme studiorono” (Anonimo Fiorentino)

30   In questo comportamento entrano certamente questioni caratteriali del personaggio, ma va anche detto che si trattava di atteggiamento comune negli alchimisti, se è vero che la loro scienza affonda le sue radici nell’attività dei tintori, degli orafi e dei tessitori dell’antico Egitto i cui segreti artigianali dovevano essere custoditi e difesi caricandoli in primo luogo di significati occulti e iniziatici. Va da sé che Dante non era legato a questa logica esclusiva ed è probabile che dal suo lavoro i chiosatori e gli editori successivi abbiano potuto ricavare con una certa facilità il segreto di quel procedimento, almeno fino all’imporsi delle tecniche innovative del XX secolo (dalla possibilità di microfilmare in poi) che, rendendo obsoleto l’antico metodo, lo hanno fatto presto dimenticare come accade ormai, con sempre maggiore frequenza, nel nostro tempo a tutte le tradizioni e le conoscenze che non hanno un risvolto attuale di interesse e di immediato profitto.

31   Do questo punto di vista assume, infatti, una particolare funzione di spia significativa del vero Dante la lunga sequela di invettive contro tutti e tutto (Dio compreso) che punteggia l’intera opera (v. Appendice II).

32   Cfr. A. Manzoni, Storia della Colonna Infame. Sellerio, Palermo, 1981, pp. 18 e 158. L’autore si riferisce in particolare agli scrittori.

33   Può essere utile richiamare alla mente di chi legge il fatto che l’attributo “divina” non è di Dante.

34   Per valutare appieno il condizionamento dovuto al peso assoluto e indiscutibile assunto dalla Commedia, si può osservare che essa non fu toccata seppure dalla radicale critica sessantottina. Eppure sarebbe stato facile dimostrare che, rispetto ai suoi tempi, Dante era un conservatore, che marxianamente non aveva assolutamente capito la portata “rivoluzionaria” in funzione antifeudale della nascente borghesia comunale e finanziaria. Neanche ci si pose il problema: l’opera fu accettata in blocco, acriticamente, e si glissò sull’ideologia codina. Potenza di un imbonimento secolare.

35   Cfr. La scuola e la questione sociale in Italia, “Nuova Antologia”, 1º nov. 1872.

36   Mi riferisco sempre all’ideologia di cui l’opera dell’autore nella lettura corrente si fa veicolo. Della forma — come ho già accennato — non si discute.

Il luogo dove dove Dante e Virgilio si trovano è a mezza costa sulla p33 parete di una bolgia.

In felice contrasto con il chiuso e pensoso silenzio dei due solitari pellegrini, giungono la sonora chiamata e l’ambiguo sorriso di un peccatore che suscita la meraviglia del poeta.

All’esordio mielato del suo discorso e al viscido atteggiamento, il personaggio fa seguire l’altisonante scansione del proprio nome e del proprio casato (Gruccio de’ Bardonecchi), la ammiccante descrizione del suo aspetto fisico e l’affermazione della sua potente condizione nel mondo dei vivi.

È a questo punto che Dante lo ravvisa e lo riconosce, tanto che, stizzito fino alle lacrime, immediatamente lo apostrofa con parole dure e comincia a rinfacciargli gravissime colpe; senza entrare nei dettagli, però, come se ritenesse che chi legge conosca così bene il personaggio da non aver bisogno di alcuna contestualizzazione1.

Ma Gruccio, prima rivendica la giustezza della sua condotta terrena chiamando in causa il Vaticano, della cui volontà e del cui disegno terreno, teso alla realizzazione del volere divino, si dichiara fedele esecutore; poi, con sottile ragione dialettica, dimostra che chi, come lui, a ammettere e a pentirsi dei suoi ipotetici peccati e malefatte non ci pensa nemmeno, si pone, negando persino l’evidenza della colpa, al di fuori di ogni possibilità di condanna.

Le sofistiche sottigliezze del ragionamento fanno uscire da gangheri il poeta che parte con una delle sue frequenti invettive. Ma questa volta il suo interlocutore gli tronca le parole in bocca e, continuando a parlare come se non lo avesse neppure ascoltato, gli dimostra come la sua permanenza infernale non possa che essere di breve durata: tutte le sue azioni sono state, infatti, perfettamente coerenti con il disegno divino, specialmente per quanto riguarda la capacità che egli ha avuto di mascherare col comportamento e con le parole il male terreno che da tale disegno inevitabilmente deriva e deriverà anche in futuro.

Di fronte a tale sicumera e sfacciataggine Dante non si tiene e si lascia andare a un gesto inconsulto afferrandolo per la collottola. Ricomincia anche ad apostrofarlo con male parole, ma per la seconda volta Gruccio, contravvenendo ad ogni regola di galateo, lo interrompe insistendo sull’inevitabilità di una sua prossima gloriosa salvazione.

È proprio in questo momento che, all’improvviso, si ode una Voce p34 la quale, con alto e paterno magistero, lo chiama a sé e alla gioia di respirare a pieni polmoni la gloria paradisiaca del Creatore. Contemporaneamente in uno scintillare beatifico di fiammelle scende dall’alto un carro trionfale che verso il cielo rapisce Gruccio, fatto più grande e risplendente, e che, scomparendo a un tratto, evita anche che Dante gli possa mettere le mani addosso come avrebbe desiderato.

Al poeta, che ha assistito all’evento incredibile, non resta che riprendere, frastornato e confuso, il cammino.

1   Per le notizie sulla figura storica del personaggio v. Appendice III.

[Pages 34 through 52 of the original text reproduce the poem with commentary. Since the poem itself will be repeated in Appendix I, only the commentary is transcribed here.]

1. trottare: “di solito riferito a cavalli, ma anche a persone per indicare un’andatura rapida” (cfr. G. Siebzehner-Vivanti, Dizionario della Divina Commedia, a cura di M. Messina, Leo S. Olschki, Firenze, 1954). A proposito della scelta di questo vocabolo, l’Ottimo osserva che “in questa parte l’autore metaforizza” volendo esprimere quella che, in senso scolastico, Tommaso d’Aquino definisce, “potenza andativa” (cfr. L’Ottimo commento della Divina Commedia, 1333); interpretazione confermata da Pietro di Dante per il quale la parola “figurat regimen et potentiam” [raffigura la guida e la potenza] (cfr: Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, 1340). Curiosa in questa circostanza, da parte del Buti, la citazione (di cui per altro non si coglie bene la funzione) di un adagio popolare: “paura fa vecchia trottare” (cfr. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia, 1380 ca.). Fra i moderni il Tommaseo (La Divina commedia con le note di Niccolò Tommaseo, 1865) osserva che il verbo “dice la forma e il ratto moto”, mentre il Pietrobono (La Divina Commedia commentata da Luigi Pietrobono, 1923–26) osserva acutamente che, in questo caso, “non lui [Dante] muove i passi, ma i passi portano lui”. Interessante anche la notazione estetica del Momigliano (La Divina Commedia commentata da Attilio Momigliano 1945–46) che, pur giudicando “questo canto costruito con unità, ma eseguito con qualche stanchezza”, apprezza nel caso specifico “la concretezza dell’espressione per rapire il lettore in una sfera alta e solinga”.

2. poi: non è agevole individuare il termine di riferimento di questo avverbio, poiché il canto non si inserisce organicamente a mo’ di continuazione di quello precedente. Probabilmente si tratta di una modifica resa necessaria dall’inserimento di questo verso nel corpo della Commedia, che poi è restata anche quando Dante decise di collocare in blocco il Canto subito dopo Inf. XXIX. L’avverbio, comunque, non stona e crea un’armonia che soddisfa l’orecchio del “buono lettore, che, mentre legge l’uno verso, ha l’occhi all’altro che segue” (Cfr. Commento alla Divina Commedia di Anonimo fiorentino del secolo XIV). Il concetto pare corrispondere in qualche misura a ciò che, proprio a proposito di questo passaggio, osservava il Foscolo che della funzione dei passaggi ben s’intendeva: “qui richiedesi semplicità di discorso” (cfr. La Divina Commedia illustrata da Ugo Foscolo e curata da un italiano (G. Mazzini), Londra 1842–43).

3. di corno in corno ecc.: da uno spuntone all’altro del terreno procedendo in discesa. Il Benvenuto osserva trattarsi di “optima metaphora” che “figuraliter designatur peregrinatio huius mundi, in quo sumus exules” [indica allegoricamente il pellegrinaggio di questo mondo, in cui siamo esuli] (cfr. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, 1373).

4. ci: sembrerebbe quasi pluralis modestiae, insieme all’uso della 1a persona plurale di tutti i verbi. Ma l’accenno al maestro mio del v. 18 esclude questa interpretazione. Si può dunque pensare che Dante già avesse immaginato la figura di un accompagnatore (già Virgilio?). — sentivano: è lectio difficilior rispetto alla più comprensibile “ci sentivamo”, che apparirebbe, però, troppo caratterizzata da moderna introspezione. “Meglio dunque accogliere (come fa anche il Petrocchi) l’altra lezione, per quanto sospetta, che i codici suggeriscono” (Cfr. Sapegno, La Divina Commedia, 1955, 1968 e 1985). Il soggetto di questo verbo si ricava dal tra l’altre (“idest animas” [cioè le altre anime], Benvenuto) del verso successivo. È il primo dei due soli accenni che si fanno nel canto a una pluralità di anime presenti in quel luogo (l’altro è al v. 67), ma che restano sempre nello sfondo senza essere né descritte né definite. Interessante a questo proposito l’osservazione del Sapegno, il quale, in considerazione del fatto che poi nell’episodio agisce un solo personaggio, crede di poter individuare la ragione della mancata visualizzazione delle altre anime nella volontà del poeta di creare un senso di “misteriosa lontananza”; si tratta di una “interpretazione suggestiva” — aggiunge — “che non può essere esclusa, in un contesto dove tutto il linguaggio è volutamente chiuso e cifrato”. Il Benvenuto taglia corto e più semplicemente dice che con questa notazione Dante “describit magnam affectionem, quam ostenderunt spiritus remanentes” [il grande interesse che mostrarono gli spiriti che si trovavano p35 lì]. — però: perciò.

5. aspettava: “un desiderio intenso, e al tempo stesso indeterminato, non circoscritto in un oggetto preciso e preveduto; aspettare di vedere qualche novità” (Sapegno). La parte finale dell’osservazione, esattamente con le stesse parole, anche in Venturi (Cfr. La Divina Commedia commentata da G. A. Venturi, Roma 1924–26).

6. s’i’ mi tacea ecc.: “quasi volens dicere tacite: non solum vulgares errant fabulando, sed etiam magni sapientes” [quasi a volere implicitamente dire: quando aprono bocca, a prender cantonate non sono solo le persone qualsiasi, ma anche i grandi saggi] (Benvenuto). Osservazione che, secondo il Tommaseo, Dante farebbe “con la finezza ch’è propria dell’ingegno e degli animi dirittamente severi”. Già il Landino, d’altra parte, aveva detto che qui il poeta “dimostra una certa schifezza generosa e senza vizio” (cfr. Comento di Christophoro Landino fiorentino sopra la Comedia di Dante Alighieri, Firenze 1481), e il Foscolo aveva parlato di “sentimento vero, profondo del cuore”. - me non riprendo: non ho niente da rimproverarmi.

7. E videmi ecc.: se è vero che il verso, come dice il Benvenuto, comunica “singularem devotionem et dilectionem” [un attaccamento e un ossequio veramente singolari] da parte del personaggio, tanto da giustificare il giudizio sulla “naturalezza, e insieme l’intensità, con cui è ritratto lo stupore dell’incontro inatteso” (Sapegno), qui, assai più che in altri casi, è indispensabile, per chi legge, fare “somma attenzione” (Landino), essendo Gruccio, come nota opportunamente l’Anonimo Fiorentino, simile allo “scorpio, freddo animale di sua natura”, la cui “puntura è velenosa e colla punta della coda punge e nuoce alla gente” a tradimento; infatti questo inizio potrebbe far sì “quod non videatur quod expedit videre” [che non si veda, quello che invece è indispensabile vedere] (Pietro di Dante). In realtà qui “tutto è ambiguo” (Cfr. V. Rossi, La Divina Commedia – L’Inferno, Napoli, 1923): giudizio che sintetizza un’interpretazione dell’atteggiamento del personaggio largamente condivisa da quasi tutti i commentatori prima e dopo di lui. Vedi il “si dee intendere che fingesse” del Buti, il “sotto fraude” del Gelli (cfr. Letture sopra la Commedia di Dante, 1541–1563), il “per la fraude” ancora del Landino; oppure la natura “pervertita dal duplice esser suo” di cui parla il Del Lungo (cfr. La Divina Commedia commentata da Isidoro Del Lungo, Firenze, 1924–26); fino al Momigliano, (secondo cui “questo è anche lo sguardo dell’ipocrita, ed ha un’evidenza da ritratto”), e al Sapegno (per il quale ci troviamo di fronte alla “figura del politico fertile di espedienti ingannevoli”).

8. e cominciò ecc.: “Et hic nota lector, quam pulchros rhytmos poeta noster fabricavit” [e qui nota, lettore, che bei versi ha costruito il nostro poeta!] (Benvenuto). Sul significato da dare in questo punto al verbo “raggiare” il Siebzehner-Vivanti propende per l’accezione “formare come un’emanazione di raggi”. L’interpretazione appare persuasiva, poiché indicherebbe una specie di influsso ipnotico perfettamente coerente con la natura del personaggio.

9. lettor: con questo richiamo “pare che Dante abbia voluto in certo modo rendere più agevole alla fantasia dei lettori il miracolo [dell’incontro] avvicinando il più possibile i tempi del dialogo, come a tentar di comprimere in una sola scena gli atteggiamenti delle battute che si incalzano” (Momigliano).

10. suo cammin riciso: “la sua strada tagliata da fosso (sì che deve saltarlo)” (Siebzehner-Vivanti).

11. da quella parte ecc.: “alla sua sinistra” spiega il Sapegno, il quale aggiunge che questa espressione ha la funzione di creare la situazione psicologica “in cui si genera il pathos morale del canto”. Benvenuto dà del verso questa interpretazione allegorica: “Per hoc signanter explicat quod loquitur de illa parte Italiae ubi est Roma... Et manifestissumum est quod Roma maxime indiget reparatione” [attraverso questa espressione il poeta chiarisce significativamente che parla di quella parte d’Italia dove si trova Roma. Ed è chiarissimo che Roma ha bisogno di riparazioni]. Infatti proprio a Roma, come dice il Serravalle, vi sono coloro che “convertunt Sacram Scripturam ex propria malitia” e che “hoc faciunt ut reddantur vulgo grati” [piegano il significato delle Sacre Scritture mettendolo al servizio della loro malignità, e lo fanno in modo da rendersi graditi al popolino] (Cfr. Fratris Johannis de Serravalle Translatio et Comentum totius libri D. Alagherii, 1416). Si tratta, tuttavia, secondo il Sapegno di “spiegazione ingegnosa ma esteriore” di fronte alla quale vale, dunque, la riserva del Vellutello: “il senso letterale è ben tanto sottile, cioè tanto difficile a poterlo allegoricamente interpretare” (cfr. La p36 Comedia di Dante Alighieri, con la nova esposizione di Alessandro Vellutello, Venezia, 1544).

12. fiso: “intensamente” (Siebzehner-Vivanti). Il Sapegno nota in questa espressione una “particolare intensità di contrasto, proprio per il modo in cui si riflette sul particolare stato d’animo di Dante, personaggio simbolico e individuo determinato”.

13. molto di là ecc.: cercando di penetrare oltre le apparenze, “perché parea forte a credere” (Anonimo Fiorentino). Questa è certamente l’interpretazione più ragionevole, anche se il Benvenuto è di parere diverso e intende lo sguardo del poeta come quello proprio del giudice “in alto tribunali ad examinandam causam et ferendam sententiam iuste” [in un solenne giudizio quando deve esaminare la causa e pronunciare la sentenza secondo giustizia]. Per la forma l’è si veda l’acuta osservazione del Parodi: “Dante doveva pur sentire qualche cosa di toscano” (cfr. E. G. Parodi, Lingua e letteratura, Venezia 1957).

15. ancor fia grave ecc.: benché il momento del ricordo sia doloroso. Gruccio “remanet tristis et dolens” [riman triste e dolente] (Serravalle), poiché “ricordavasi della vita mondana che reputava felice” (Buti).

16. a così fatta parte: a me, Gruccio, per metonimia da “parte”, cioè “partito politico”, secondo il Siebzehner-Vivanti, che cita Par. IX, 59: “Per mostrarsi di parte... per mostrarsi ligio ai Guelfi”, e ancora Par. XXVII, 47: “ch’ha destra mano [dei papi] parte sedesse”. L’interpretazione è confermata dalle notizie del Buti, del Lana e del Benvenuto a proposito del rapporto di Gruccio con la Curia romana (v. Appendice III). — si confaccia: sia consentito.

17. di ragionar ecc.: di parlare o di avvicinarsi a chi, come Dante, non è un dannato. “Lusinga di adulazione all’uomo’ annota con fine intuito psicologico il Donadoni” (Sapegno).

19. oltre quanto ecc.: onde visualizzare meglio l’espressione, cfr. Inf. XXV, 132: Come face le corna la lumaccia, che è bestia notoriamente viscida “e fatta molle” (Buti) e abituata a vivere “in limo molli” [nella pillacchera] (Benvenuto).

20. E sé continuando ecc.: “continuando questo col detto di sopra” (Buti); “nam continuo magis et magis accenditur appetitus” [difatti si accende e aumenta sempre più e continuamente il suo desiderio di parlare] (Benvenuto).

21. come sotto ecc.: con l’ateggiamento di chi si ripara dietro uno scudo per non essere colpito. Gruccio, così atteggiandosi, “quasi si scioglie e difende dalla colpa” (Landino). Il Sacchetti (1332–1400), in una lettera a Rinaldo Gianfigliazzi, citando questo passo, paragona l’atteggiamento di Gruccio a quello dei “can botoli” che “dopo le battiture stanno soggetti con timore”. Il Rossi osserva che il verso dà “il senso vivo d’una stupefazione paurosa”.

22. s’aperse il petto: “dimostra che dentro come di fuori si debbe vergognare, e quel medesimo che sente nel cuore dire colle parole, e rompere questa pietra della durezza e ostinazione de’ suoi peccati” (Anonimo Fiorentino). Ma Iacopo di Dante lo giudica “falsamente trasformato” (Cfr. Chiose alla cantica dell’Inferno di D. Alighieri scritte da Jacopo Alighieri, 1322), e il Benvenuto avverte che si comporta “eadem specie falsitatis” [col solito atteggiamento falso].

23. de’ Bardonecchi: “il nome si distende ampio nel verso, recando con sé un’ombra della vana grandezza antica” (Sapegno).

24. Gruccio: “poteva essere soprannome, con significato dispregiativo...; ma era certo anche nome proprio di persona” (Sapegno). Nel primo caso l’epiteto farebbe riferimento alla forma della gruccia, nel senso dell’ “arnese su cui si posa la civetta per uccellare”, ovvero dell’ “arnese di legno... o croce: per appender vestiti negli armadi” (v. Vocabolario p37 della lingua italiana compilato da Nicola Zingarelli, edizione novissima, Bologna, 1935); nel secondo potrebbe essere la contrazione del vezzeggiativo “Allegruccio” da un Allegro d’origine. La prima ipotesi appare decisamente la più probabile, poiché è coerente rispetto al contenuto dei versi che seguono. D’altra parte il significato di “rattratto, sbilenco, deforme come una stampella da abiti”, rende perfettamente chiaro il particolare costrutto sintattico della frase. La seconda, invece (nonostante quel certo del Sapegno), è poco sostenibile, stante il fatto che in nessun testo letterario dei secoli XIII–XV viene attestado “Allegro” come nome proprio. E forse non c’è neanche da stupirsi, visto — per dirla manzonianamente — il modo in cui il mondo camminava allora.dal mento al ciufetto: “Cioè dal petto in giù” (Anonimo Fiorentino). Il ciuffetto è il “folto pelo” — come dice Dante stesso in Inf. XXXIV, 75 — “donde si dipartono gli arti inferiori” (Sapegno). Il Lana, bizzarramente, parla qui di “pelo maculato a modo di leopardo” (cfr. Comedia di Dante degli Allaghieri col commento di Jacopo della Lana bolognese, 1324).

25–26. che recherà ecc.: intendi: che porterà sempre con sé il simbolo dell’imbroglio, della frode continuata. È questa l’interpretazione più probabile di questi due versi in cui la tasca, collegata al precedente ciuffetto, sembra proprio un trasparente riferimento (anche se il poeta — come osserva il Benvenuto — “loquitur verecunde” [si esprime castamente]) a quella parte del corpo che Fra’ Jacopone chiamava la “cóglia”, mentre i tre becchi e il successivo circuir rimandano al boccaccesco “uccellare”, col “senso traslato di ‘beffare’, trasportato il vocabolo dagli inganni che si fanno agli uccelli” (cfr. DELI — Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, di M. Cortellazzo e P. Zolli, seconda edizione, a cura di M. e M.A. Cortellazzo, Bologna, 1999). Questa interpretazione è anche quella di Benedetto Croce, che osserva: “ogni cosa v’è espressa in modo concreto e con immagini corpulente”. Il Buti, invece, è incerto sul significato dei due versi (“qui si dubita quello che l’autore intendesse”), anche se a proposito dei becchi, cita poi questo episodio della vita di Gruccio, miracoloso per l’intervento di San Nicola: “avea tre figiuole bellissime e si mosse di notte con una tasca di denari che fosse sofficiente alla dota”, sì che “maritò la maggiore, poscia la seconda, e poi l’altra; e condussele ad onore”. L’Ottimo, infine, spiega i tre becchi come allegoria dei “tre vizi che comunemente più occupano l’umana generazione”, e chiarisce che “la prima volta è per li peccati commessi nel pensiero, la seconda per li peccati produtti con la lingua, la terza per li peccati conseguiti con le operazioni”. È interpretazione suggestiva; anche se il Landino, cento anni dopo, riesaminandola, invita il lettore alla cautela: “l’allegoria non è da commendare né da ricevere per buona, dove il senso letterale non ha stato”.

27–28. Spesse fiate ecc.: intendi: “spesse volte le spalle, il petto e gran parte del ventre mi fanno rintronare gli orecchi”. Il Buti, per meglio chiarire il meccanismo di questo fenomeno fa l’esempio del “foro della sampogna, che è istrumento musico che si suona col fiato”, in cui il suono prende forma per “vento che passa per esso foro, mandatovi soffiando con bocca o gonfiando lo cuoio”. Il Sapegno, entusiasta di fronte al “violento impasto di sonorità verbali” di questi due versi, parla di “un inno di solenne epopea, dove anche le note malinconiche suonano grandi”.

29–31. e fanno un gibbo ecc.: intendi “e producono (come si può notare sia dal vivo che dalle rappresentazioni che se ne fanno) una gibbosità nocchieruta che suole essere oggetto di una forma di venerazione unica nel suo genere (sola)”. Insomma Gruccio vuole dire che oltre alla comune superstizione legata alla figura del gobbo, il suo è un caso di speciale devozione.

29. catria: il vocabolo si ricollega alla stessa radice da cui deriva il vernacolare “catrozzolo” (o “catorzolo”), “termine che letteralmente indica la prominenza nodosa di un tronco d’albero” e che “in area livornese, ma con ampi riscontri e riconoscimenti nei territori pisani e in Lucchesia individua un’aggregazione materiale, per lo più vile, di forma subsferica e con superficie accidentata e fitta di asperità” (cfr. G. Marchetti, Il Borzacchini Universale — Dizionario ragionato di lingua volgare, anzi volgarissima, d’uso del popolo alla fine del secondo millennio, dal parlare toscano e vieppiù labronico diligentemente mutuata, Firenze, 1996).

30. arte: secondo la spiegazione di Sapegno, si tratta di quella che ha come punto di riferimento la “catottrica euclidea”. Ma l’interpretazione non convince.

31. che suole ecc.: spiega il Serravalle: “prothesis p38 est et sacramentum” [la protuberanza è anche un sacramento]. — latria: “nei lessici e repertori medievali, Dante trovava il termine greco latria, inteso come ‘specialis ratio servitutis’ [particolare forma di ossequio]” (Sapegno). A questo punto il Buti ci dà una suggestiva immagine dell’aspetto del personaggio con riferimento a immagini sacre e simboliche: “nei capitelli delle colonne o ne’ piumaggioli [aggetti] delle travi si scolpiscono alcuna volta omini colle ginocchia al petto, che paiano sostenere tutto quel carico, sicché chi li vede n’hae rancura [angoscia]”.

32–33. che truono accoglie ecc.: intendi: “che contiene una rimbombante quantità di guai che stanno per rovesciarsi sulla tua Firenze”. — truono: con riferimento all’intronare del v. 27, il Sapegno nota qui “la ripresa impetuosa del discorso”, cui corrisponderebbe “la ripresa del dramma e il suo compimento”. — guai: “sventure” o “lamenti”. Seguendo la chiosa del Benvenuto (che spiegava: “in signum irae et doloris” [in segno di rabbia e dolore]), il Landino propendeva per la seconda ipotesi, definendo la parola “voce significativa di dolore”. Tuttavia, come osserva il Sapegno, “la prima interpretazione sembra più probabile, e poeticamente suona più efficace” poiché “scopre il cruccio segreto” di Dante. Già il Porena, d’altronde, aveva osservato che “ciò corrisponde al pensiero di Dante, che vedeva nella politica” di Gruccio “e nella sua complicità coi papi degeneri uno dei guai fondamentali dei suoi tempi” (cfr. La Divina Commedia commentata da Manfredi Porena, Bologna, 1946–48).

33. e non molto ecc.: “quod est magis periculosum” [circostanza che è la più pericolosa] osservava già il Serravalle. E, in effetti, come nota acutamente il Del Lungo, in queste parole, che suggellano la prima parte del suo discorso, Gruccio “inchiude idea di necessità, certezza, minaccia ecc. che una cosa sia per farsi, checché altro possa parerne, o pensarsi o contrastare”.

34. conobbi: nel senso di “rendersi conto” (Siebzehner-Vivanti) esattamente della natura del personaggio, con l’atteggiamento di coloro che “tuttavia suspicano non sia così come lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono” (Cfr. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, 1373). Atteggiamento tanto più importante “imperò che”, come osserva il Buti, “non riconoscere la creatura non poteva essere senza suo pericolo e dannazione”. L’espressione “dice adunque l’operazione propria dell’intelletto, cioè che a la cognizione de’ vizi, che si commettono sotto fraude, si va col cercare di conoscere il male per poterlo fuggire” (Gelli), “perché prima è necessaria la dottrina e la prudenzia a conoscere i peccati” (Landino). Sintetizza il Tommaseo: “Il poeta, con la finezza ch’è propria dell’ingegno e degli animi dirittamente severi, conosce”. — pregai: col significato di “richiedere, domandare, con per oggetto la cosa richiesta” (Siebzehner-Vivanti). La scelta di questo verbo è interpretata dal Buti come “segno di cruccio e d’indegnazione, insieme col grido”. Anche il Torraca vi nota un “affollarsi di sentimenti diversi” che, subito dopo, hanno l’effetto di dare “all’apostrofe, all’invito, alla preghiera, singolare efficacia” (cfr. La Divina Commedia nuovamente commentata da Francesco Torraca, Milano, 1915).

35. Perché ecc.: sia il Sapegno che il Reggio (cfr. La Divina Commedia a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze, 1979) notano con la stessa espressione (“la martellante anafora”) “l’efficace costruzione retorica di questi drammaticissimi versi” (Reggio) che “trasforma il discorso in una sorta di incalzante sillogismo per cui, poste determinate premesse logiche, debba quasi di necessità scaturirne una prevedibile conclusione” (Sapegno). — allette: alberghi.

36. ardire a franchezza: “imperoché il vero si dice con ardire” (Buti) e “con franco e invitto animo” (Vellutello).

37. nel suon delle parole ecc.: osserva il Boccaccio che Gruccio “suonava sempre in mala parte, quasi come una maladizione mandata da Dio alla città nostra”.

38. così: il referente di questo avverbio non appare immediatamente chiaro, ma lo si ricava facilmente dal contesto (vedi, per es. i guai del v. 32). Il riferimento è generico, ma ciò è dovuto al fatto che i danni gravi e diffusi derivanti dalle azioni di Gruccio erano talmente noti ai lettori di allora che Dante non sente alcun bisogno di specificarne analiticamente la natura. A un lettore moderno potranno invece essere utili i giudizi del Benvenuto, che definisce Gruccio “armarium omnis malitiae”, [ricettacolo di ogni malizia], dell’Anonimo Fiorentino che di lui e dei suoi compari parla come di persone che “sono cagione d’ogni male della terra”, e del Boccaccio che rincara la dose attribuendo al p39 personaggio la responsibilità delle “quistioni, i piati, le guerre e molte male venture” di Firenze. Giudizi successivamente ripresi dal Landino che lo pone tra i “cattivi cittadini che iniquamente amministravano”, a — più di recente — dal Barbi che, allargando il discorso, lo ritiene “causa di tanti mali alle città”. — verso noi: contro l’umanità intera, oppure contro Firenze, o anche, più in particolare, contro Dante e Virgilio se, come ipotizza sottilmente il Rossi (cfr. Saggi e discorsi su Dante, Firenze, 1923, citati dal Sapegno) con questa precisazione il poeta vuole qui accennare al fatto che Gruccio “continuerebbe anche nell’inferno ad esercitare la sua arte di mettimale”.

39–44. Ma il Vaticano ecc.: intendi: “ma il Vaticano e gli eletti del popolo che avevano l’aspetto e il comportamento delle donne, falsavano con la loro apparenza seduttiva il secolare percorso di malefatte che prima aveva turbato gli animi, tanto che il Cielo ora sorride contento perché fu proprio lui a consigliare l’inganno”.

39. parti elette: i rappresentanti eletti del Comune. Dice Giovanni Villani (Nuova Cron. VIII, 13) che tali parti, “sotto coverta di falsa ipocresia, furono in concordia più al guadagno loro proprio che al bene comune”. A proposito della loro rappresentatività l’Ottimo sente la necessità di indicare che “vera elezione è quella che procede dalla raziocinazione”; mentre, più fatalisticamente, il Benvenuto conclude che “Deus scit numerum electorum” [sa Iddio qual sia il numero degli eletti].

40. che membra ecc.: il significato del verso “è qui molto ambiguo” (Tommaseo). Di “ambiguità, o meglio, ambivalenza” del verso parla anche il Sapegno, il quale aggiunge che “c’è stato chi ha parlato qui addirittura di una sorta di compiacimento e quasi di fascino morboso”. Tuttavia, come dice il Momigliano, il verso “si armonizza bene con l’aria di segretezza e di ipocrisia che spira da tutta la rappresentazione di questa bolgia”. In effetti, spiega il Chimenz (cfr. La Divina Commedia a cura di Siro A. Chimenz, Torino 1962), “l’antiteticità è nel fatto stesso”. Si vuol dire insomma che, se dal punto di vista di Gruccio l’espressione non può che inserirsi nella linea della tradizione occitanica, siciliana e stilnovistica, ad indicare, come dice il Del Lungo, “i bei costumi, le arti gentili, la cortesia” del Vaticano e l’altre parti elette; dal punto di vista del poeta, che giudica quel luogo e quelle parti il “tristo sodalizio dei papi simoniaci” (Rossi) e dei loro compari, essa non può che ricollegarsi al filone basso, comico realistico; quello, per intendersi, a cui appartengono i famosi versi della rappresentazione di Taide in Inf. 130–133 (di quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose, / e or s’accoscia e ora è in piedi stante. / Taide è la puttana che rispuose...), fortemente vitale nei sec. XIII e XIV. Se ne forniscono alcuni esempi. Dal Novellino: “Donne io vi priego per amore che, quale di voi è la più putta, quella mi dea in prima” (nov. 42); “Fu uomo c’avea sì grande naturale, che non trovava neuna che fosse sì grande ad assai. Or avenne c’un giorno si trovò con una putta che non era molto giovane e, avvegna che molto fosse orrevole e ricca, molti n’avea veduti e provati” (nov. 86). Dal Fiore (falsamente attribuito a Dante stesso): “E giva per le mura tutto ’ntorno / dicendo: ‘Tal è putta e tal si farda, / e la cotal à troppo caldo il forno, / e l’altra follemente altru’ riguarda”. (son. 32). Dagli Assempri di F. Degli Agamari: “Sozza, troia, putta, che fanno que’ frati in camera?” (as. 25). Dai Motti e facezie del Piovano Arlotto: “Amore di puttane, / carezze di cane, / amicizie di preti, inviti d’osti / non può far che non costi”. Si consideri, infine, questa descrizione femminile tratta dalla Tabula exemplorum: “puella que a parte anteriori erat mirabiliter pulchra; a parte posteriori plena erat verminibus, corruptione, putritudine et foetore” [una fanciulla con un davanti bellissimo e un didietro pieno di vermi, putrefazione, putridume e puzzo]. Non è improbabile che molti aspetti di queste rappresentazioni abbiano come modello primo e comune l’Apocalisse con l’immagine “meretricis magnae, quae sedet super aquas multas. Cum qua fornicati sunt reges terrae, et inebriati sunt qui inhabitant terram de vino prostitutionis eius” [della puttanona, che siede sulle acque, con la quale copularono i grandi del mondo, e del vino del cui mestiere si è imbriacata l’umanità intera].

41. lagrimar: per Dante “quivi era sì grande il peso, che parea dire piangendo: Io non ho più podere di portare questo peso” (Ottimo). La reazione del poeta dipende dal fatto che le parole di Gruccio, come osserva il Tommaseo, “fanno un viluppo tra sé, e avviluppano il sentimento e il pensiero, e quindi la parola di Dante”. Sulla carica espressiva del verbo il Contini ha parlato di “un singhiozzo fissato fonosimbolicamente” (“che forse è dir troppo” [Sapegno]).

42. falsava: grammaticalmente concorda col sing. Vaticano, ma, a senso, va riferito anche alle parti elette. — nel parere: con l’apparenza, con le sue manifestazioni esteriori. Chiarisce il Benvenuto che questi politici, “licet in apparatu et ornatu exteriori sint splendidi” [sebbene appaiano magnifici per sfarzo ed eleganza esibita], sono tuttavia veramente p40 “alieni ab omnibus aliis hominibus in moribus, praecipue in cupiditate querendi et parcitate servandi” [degli alieni rispetto alla gente comune per l’avidità e l’avarizia che caratterizza la loro condotta]. — il lungo tratto: il “lungo tratto di secoli, molti secoli” (Siebzehner-Vivanti).

43. che pria turbava: osserva il Buti che il mondo “lungo tempo hae udito dire” di questa perversità, ma adesso essa “falsa pare all’uomo, tale quale elli se la rapresenta”. — ’l ciel ne ride: spiega ancora il Buti: “sorridendo della simplicità e grossezza del falso pensiero”; e il Benvenuto precisa: “riserat condolens humano generi” [aveva riso compatendo l’umano genere]. Di fronte all’evidente e quasi blasfema gravità dell’osservazione, alcuni commentatori successivi hanno cercato di mettere le mani avanti addolcendone la crudezza. Così, per esempio, il Sapegno, secondo il quale “la commiserazione non si confonde con un chiuso e arido disprezzo” degli uomini; oppure l’abate Antonio Cesari, purista e cattolico, il quale sostiene addirittura che si tratta del “sorridere che fa il Creatore all’anima da sé creata, e il sorridere è mostra ed effetto dell’amore gratuito” (Cfr. Bellezze della Divina Commedia di D. Alighieri. Dialoghi d’Antonio Cesari, Verona, 1824–26); ma, dato il contesto, l’entusiastica interpretazione appare francamente forzata. Sul piano estetico è degna di nota ancora un’osservazione del Sapegno, secondo cui, rispetto al precedente lagrimar, l’espressione “illumina, con sapiente contrasto, proprio la qualità estremamente grave e difficile dell’assunto” (Sapegno).

44. perché diede ecc.: si tratta del “termine fermo, in che si deliberò e consigliò la Somma Sapienza ab aeterno” (Buti). Sempre nel tentativo di attenuare l’impatto della gravissima affermazione, l’Anonimo Fiorentino osserva che questo comportamento di Dio deriva da “sì pronta misericordia e da sì eccellente consiglio, che discernere non si può la sua radice né la sua vena”; mente il Landino spiega che, nonostante le apparenze, il suo significato certamente provvidenziale “non ci può esser nascosto né coperto da altro velo che da colpa e peccato, perché solo el peccato è quello che nasconde all’uomo i doni dello Spirito Santo”.

45–49. Così fec’io ecc.: intendi: “così anch’io mi comportai come Lui, dopo che mi ebbe chiarito che, laddove l’astuzia riesce, laggiù sulla terra, a rendere futuro ciò che è attuale (fa cioè in modo che i fatti del momento siano giudicati fin da ora come lo saranno in futuro, cioè edulcorati e mistificati), chiunque sia dotato di un po’ di finezza e sappia tenersi in equilibrio senza mai sbilanciarsi, si guarda bene dal pentirsi (cioè dal riconoscere le proprie colpe e i propri torti)”.

46. l’argomento: la parola “come spessissimo in Dante, ha valore di strumento, argomentazione, ragione a sostegno” (Siebzehner-Vivanti). “Argomento è induttivo di prova”, chiarisce l’Ottimo. — mente: ”l’intelligenza quasi personificata” (Siebzehner-Vivanti). Il Sapegno osserva che si tratta di “mente non di mistico ma di logico”.

47. fa crastino ecc.: riecheggia nelle parole di Gruccio una frase di Severino Boezio: “idque omnium videbitur iniquissimum, quod nunc aequissimum iudicatur, vel puniri improbos vel remunerari probos” [e ciò che oggi vien giudicato giustissimo, come per esempio punire i disonesti e premiare gli onesti, apparirà domani come la cosa più ingista di tutte]. — crastino: “(dal latino cras = domani) che avviene domani” (Siebzehner-Vivanti).

48. non si pente ecc.: quella di Gruccio è dunque la figura dell’impenitente, di colui che “non è disposto a pentirsi. Incorreggibile” (cfr. Zingarelli, Voc. Della Ling. Ital., cit.), ovvero di “chi persiste nello stato di peccato per formale rifiuto della volontà a farne ammenda” (cfr. G. Devoto–G. C. Oli, Dizionario della lingua Italiana, Firenze, 1971), e il luogo infernale di questo incontro con Gruccio sarebbe dunque la bolgia degli impenitenti. — chi guarda sottilmente: ma, purtroppo, ugualmente “può essere che l’uomo s’inganni nel discernere qual sia maggior male e quale minore”, osserva filosificamente il Buti.

49. sempre riman ecc.: “credo quod poeta sub ista fictione peregrina velit figurare propriam naturam istorum vilium, qui in frigore stant ad solem et in sole stant ad umbram; nam isti tales omni in loco, omni tempore, vitant laborem, fugiunt calorem et frigus, et ideo velut umbra vanescunt [credo che il poeta, con questa immagine così singolare, voglia rappresentare la natura profonda di quei miserabili che quando è freddo stanno al sole, e quando c’è troppo sole stanno all’ombra; poiché questi tali in ogni situazione, in ogni circostanza schivano i disagi, evitano il caldo e il freddo, e vagolano ovunque impalpabili come fantasmi] (Benvenuto). E il Buti aggiunge che Gruccio era come “uno uccello che teme molto lo freddo e mal tempo, e quando è mal tempo sta appiattato, e come ritorna lo bono tempo esce fora e par che faccia beffe di tutti li altri”.

50–55. Ma se presso al mattin ecc.: intendi: “se ciò di cui ragiono è vero, come sono veri i sogni che si fanno all’alba, i beati, i cui peccati sono stati accuratamente tenuti nascosti (beati, quorum tecta sunt peccata), mettendosi in fila, con opportuno p41 aggiramente del Creatore per tutto l’arco superno del cielo, aspettano il loro turno di essere esauditi davanti all’ufficio paradisiaco dei perdoni, sollecitando l’addetto con lo stesso verso che fanno i cicognini quando battono i becchi per chiedere il cibo ai genitori”. Questo parrebbe il significato più probabile di questo bell’esempio di trobar clus, anche in riferimento a Par. XIX, 91–93 (Quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch’è pasto la rimira) a proposito del rapporto dei beati con l’Aquila imperiale. Ma, avverte il Sapegno, “già i più antichi commentatori sono discordi fra di loro sull’esatta interpretazione del passo dantesco”.

52. perdone: “i luoghi dove si lucrano indulgenze” (Sapegno).

54. mettendo i denti ecc.: “et hic nota quomodo comparatio est propria” [e qui nota quando sia propriato il paragone] (Benvenuto). Secondo il Sapegno il verso “materializza la situazione e la rende grottesca”.

55. grande aggirata: “note come questa definizione palpiti tutta di quell’estasi vertiginosa che sommove di quando in quando liricamente le parole di Dante” (Momigliano). Molto più prosasticamente, invece, il Landino: “come gira un paleo [una trottola], quando i fanciulli lo percuotono con la ferza”. Sul significato dell’immagine, si veda Gelli, per il quale, secondo Gruccio, questo sarebbe “il modo che debbe tenere l’uomo perché la fraude (la qual inganna sempre) non offenda”.

56–61. Né per esser battuta ecc.: intendi: “e la mia mente contenta di sé, benché per ora sia punita qui nell’inferno (per esser battuta), cantando come una donna innamorata dal cuore sempre ardente d’amore, non si pente delle sue malefatte. La gente non ha alcuna possibilità di difendersi, quando decido di rovinare persino i miei stessi compari!”. Osserva il Sapegno: “La complessità del discorso è tutt’altro che arbitraria; essa rispecchia la complessità della materia in un’ambiguità di disposizioni mentali e sentimentali, e quindi in una complessa raggirata di formula espressive, che è anzitutto sforzo di comprendere, di scoprire [da parte di Dante] le ragioni determinanti di un’aberrazione”.

57–58. cantando come ecc.: “immagine, felicissima in sé nel rendere con chiarezza una complicata formula mentale. La frase artificiosa che [Gruccio] adopera culmina in un periodo, in cui non soltanto non è esclusa, ma anzi precipita e si fa più che mai evidente quell’ambiguità e tensione dello sforzo intellettualistico e delle strutture formali” (Sapegno).

59. di sé fa letizia: c’è, nella mente di Gruccio, la “misura della letizia col merito” che fa “la beatitudine e felicità sua” (Buti).

60–61. nessun riparo ecc.: si tratta, nel caso di Gruccio, di una “potenza datali naturalmente” da Dio, “per sì fatto modo che senno umano non può resistere né riparsi” (Buti). — procuro a’ mia: a coloro che “habent eandem originem” [son della mia stessa genìa] (Benvenuto). Gruccio non era comunque il solo a comportarsi così. Viene in mente, per es., un passo, del Compagni, dove si dice di un certo “Pecora, uomo di poca verità, seguitatore di male, lusinghiere”, che non solo “corrompea li popolani minuti”, ma era anche “di tanta malizia che mostrava a’ signori che erano eletti, era per sua operazione. A molti promettava uficî, e con queste promesse gl’ingannava” (Cfr. Cronica della cose occorrenti ne’ tempi suoi, I, 18).trestizia: “ille qui perdit remanet tristis et dolens” [se qualcuno vien fregato, riman triste e addolorato] (Serravalle).

62. mi pinser: mi spinsero (a parlare) sembrerebbe il significato più evidente; ma poiché, come dice il Sapegno, “tale interpretazione è respinta risolutamente da Benvenuto”, si dovrà invece intendere mi dipinsero e immaginare il poeta paonazzo di stizza e di rabbia. “Questo colore di fuoco hae a denotare l’ardore”, chiosa infatti l’Anonimo Fiorentino; e il Buti, come al solito più analiticamente: “imperò che il sangue quando riarde diventa nero e induce sì fatto colore nella pelle di fuore”. È su questa base che il p42 Momigliano può parlare di “mimica osservata con un umore caratteristico”.

62–63. li argomenti gravi di fede: “avendo a trattare cose difficilissime e divine” (Landino).

63. eretica nequizia: quella che, “siccome appare nelle sette degli eretici” (Buti) “si dimostra nello iniquo e malvagio volere ed appetito reo” (Lana). E in questo accenno all’eccesso smodato di cibo c’è un evidente riferimento al De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico che, riferendosi agli eretici, parla di “malitia anhelitus” [fiato puzzolente] accompagnato da “dolor capitis, sitis et similia” [mal di testa, arsura e simili] come loro specifiche caratteristiche.

64. soffiata ecc.: “verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi” (De Sanctis), data la voluta ambiguità di quel venti a seconda che lo si pronunci con la e aperta oppure chiusa. Nel primo caso (vènti) si dovrà pensare a ciò che osservava Fra Giordano da Pisa (1260–1311), quando affermava che “dal vento corrotto dicono i medici che ne nascono le più pericolose malizie”, e, dunque, interpretare schiavi come riferito ai “provenienti dalla Schiavonia” (Siebzehner-Vivanti), cioè agli Slavi dei paesi dell’Europa orientale. Sembrerebbe l’interpretazione più ovvia, ma un lettore moderno non può non avvertirne l’indisponente anacronismo. Circostanza che non si verifica se invece si legge vénti: un numero riferito ai collaboratori di Gruccio, quella ventina di persone “del suo stretto consiglio” per le cui mani “quasi tutto lo regno si governava”, come dice il Buti; il quale aggiunge che furono in “servitù del demonio e del peccato” (schiavi).

65. c’ha disviate ecc.: “Pulchra comparatio: quia sicut evenit agno lascivo, qui indiget cibo, tamen dimictit lac matris, saltans hic inde, et cadens in faucibus lupi; sic evenit Christianis qui recedunt ab Ecclesia matre sua, et vadunt huc illuc vagando, et sic incidunt in manibus diaboli” [bel paragone: perché, come capita all’agnello baldanzoso che, pur avendo fame, abbandona il latte materno e, ruzzando qua e là, va a finire dritto filato fra le fauci del lupo; così capita anche ai cristiani i quali, allontanatisi dalla madre Chiesa, dopo aver gironzolato qua e là, all’ultimo si ritrovano proprio tra le grinfie del diavolo] (Serravalle).

66. i buoni: “vilis et imbecillis multitudo innumerabilis” [la moltitudine immensa dei poveri imbecilli] (Benvenuto). — i pravi: “illi qui sunt vitiosi, prodigaliter expendunt ultra vires facultatis vel lucri; ideo faciunt turpia lucra, aliquando cum ludis, aliquando cum furtis, aliquando cum lenociniis, exponentes filias, sorores et uxores libidini, ut satisfaciant gulae et voluptatibus suis [i viziosi, che scialacquano il denaro oltre le loro possibilità di guadagno; e così fanno turpi profitti, ora col gioco d’azzardo, ora coi latrocini, ora con lo sfruttamento della prostituzione, offrendo le figlie, le sorelle e le mogli all’altrui libidine, per soddisfare l’appetito e il piacere proprio] (Benvenuto). O, per dirla col Buti, i “simoniaci, avari, rattori [ladri], lussuriosi, cherici tristi”, che non curano “se non d’avere danari”. Osserva opportunamente il Salinai che qui Dante “si rende conto della forza di corruzione e di rapido travolgimento dei grandi valori civili ed umani che poteva avere una società fondata sul denaro” (cfr. Divina Commedia, a cura di Carlo Salinari, Sergio Romagnoli e Antonio Lanza, Roma, 1980).

67–70. Con noi per poco ecc.: intendi: “trattieniti poco qui con noi e torna là coi tuoi compagni di pena! Proprio là dove (o non sei tu stesso a dire che l’interesse legato al denaro (l’usura) tormenta l’anima?) i nuovi arricchiti si puniscono vergognosamente l’un l’altro!”. È un evidente accenno alla pena cui sono sottoposti i dannati di questa bolgia.

67. compagni: è il secondo accenno nel canto alla presenza nello sfondo di altre anime, dopo i vv. 4–5. “Cum multis aliis complicibus” [insieme a tutti gli altri pari tuoi], spiega il Benvenuto.

68. (di’ ch’usura offende?): è difficile cogliere con chiarezza quali siano i fatti specifici adombrati in questo inciso. Probabilmente il poeta rinfaccia a Gruccio un qualche suo tentativo terreno di tener lontani a parole i nuovi concorrenti nella corsa all’arricchimento che caratterizzò i fiorentini negli anni a cavallo dei secoli XIII–XIV (“ora sono putti, imperò che ogni cosa fanno per denari”, dice il Buti), agitando di fronte a loro lo spauracchio della dannazione. A proposito di questa parentesi il Sapegno ha parlato di “stranezza dello stile, volutamente aspro, elaboratissimo, irto di artifici retorici”. — offende: “imperciò che” fa perdere “la vita spirituale” (Buti).

69. la gente nova e i subiti guadagni: è un endiade che giustifica la 3ª pers. sing. dei due verbi che seguono. — subiti: improvvisi, venuti su dall’oggi al domani.

70. qual va dinanzi, e qual di retro ecc.: secondo il Buti il verso descrive “l’officio che ciascuno debbe p43 esercitare, e l’avvicendamento che debbe fare l’uno all’altro” nell’inferno. “Nota la concretezza dell’espressione”, osserva il Momigliano. Va tuttavia notato che, rispetto ad altri momenti di particolare trivialità dantesca (valga per tutti il famoso ed elli avea del cul fatto trombetta che chiude Inf. XXI), in questo caso il poeta si esprime “con parole velate, nel tono triste di chi rifugge dall’affissare lo sguardo su una realtà dolorosa” (cfr. La Divina Commedia, col commento di G. A. Scartazzini rifatto da Giuseppe Vandelli, Milano, 1929).

71–75. che quello imperator ecc.: intendi: “poiché Dio, dopo che morì in croce, ripaga i peccatori (cotal moneta rende) con una giustizia così estesa e potente, che basta un gesto delle mani a indicare...”

71. imperator: Dio (nella persona di Cristo — vedi il successivo poi che morì) il quale “stat in medio coeli tamquam rex in medio regni qui totum regit, omnibus imperat” [sta in mezzo al cielo, come un re in mezzo al suo regno, che tutto controlla, su tutti impera] (Benvenuto).là sù: “suso in cielo” (Anonimo Fiorentino). Precisa il Benvenuto: “idest coelum Empyreum, quod est factum ex luce et amore [“cioè lo cielo Empireo, che non è fatto altro che da materia luminosa e amore” (Porena)].

73. virtute: si tratta di una “virtù causativa” (Landino) che promana “de plenitudine potestatis” [dal completo dispiegamento della potenza di Dio] (Benvenuto). — l’aura impregna: “imperò che ogni cosa riempie” (Buti), stante il fatto che “Deus primam suam virtutem absque medio disponit et signat [Iddio dispiega e manifesta il suo connaturato potere senza ostacoli] (Benvenuto).

74. de la vendetta ghiotto: puntualizza subito il Sapegno, mettendo di nuovo le mani avanti: “vendetta e ira, riferiti a Dio, stanno naturalmente nel senso di giustizia”, e ghiotto indica “la logica semplice e rettilinea della giustizia divina”. Egli riprende, in questo modo, l’interpretazione del Momigliano secondo cui “chi colpisce è il ministro della giustizia, il vindice della rettitudine”. Già il Buti, comunque aveva spiegato che ghiotto esprime il “santo desiderio” di Dio che “non è vendetta, ma giustizia”. Decisamente più spregiudicato, invece, il Landino che, senza tanti problemi, spiega ghiotto, anche se referito a Dio, come “la gola, idest la cupidità”. D’altra parte aveva già notato l’Ottimo: “tutto dì, chi guata con la mente sana, si vede di queste vendette e giustizie divine”.

75. coi dossi delle man ecc.: “accennando e mostrando la via” della perdizione e dell’eterno castigo (Anonimo Fiorentino). Dunque l’intenzione di Dante (inteso come personaggio) è quella di concludere la sua invettiva col “segno di vittoria di Cristo” (Boccaccio) che caccia e condanna i peccatori; “segno di cruccio e d’indegnazione” della divinità, come chiosa il Buti, “la quale ha possanza di cacciare gli spiriti immondi” (Landino). Ma l’improvvisa interruzione di Gruccio cambia dialetticamente il senso della frase.

76–77. che corre al ben ecc.: intendi: “che persegue il bene attraverso mezzi corrotti, a causa dei quali l’umanità si accapiglia”. Insomma, secondo la spregiudicata interpretazione di Gruccio, Cristo col suo segnale indica che, per realizzare il suo disegno provvidenziale, sono necessari e giustificati mezzi i quali, presi in se stessi, sono corrotti e pervertitori dell’ordine armonioso delle cose. “E così [Gruccio] contemperava lo male col bene”, argomentando che “ogni cosa torna secondo che la sua [di Dio] providenza dispone e ordina, e ogni cosa torna in bene, imperò che Iddio non vuole né può volere altro che il bene” (Buti): “lodiamo — pertanto — Iddio, e confessiamo ogni bene venirne dalla maestà sua” (Daniello). — ben: “Summum Bonum” [il Bene Ultimo] (Benvenuto). — ordine: “scilicet ordo naturalis” [cioè l’ordine naturale] (Benvenuto).

77. perché l’umana gente ecc.: “ne vuole l’autore inqueste parole dimostrare le quistioni, i piati, le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dì gli uomini hanno insieme per li crediti, per l’eredità, per le occupazioni e per i mal regolati desideri” (Boccaccio). — si rabbuffa: “il significato di questo vocabolo par ch’importi sempre alcuna cosa intervenuta per riotta o per quistione, sì come è l’essersi l’uno uomo accapigliato con l’altro, per la qual capiglia, i capelli sono rabbuffati, cioè disordinati” (Boccaccio). Si tratta, dunque, dal punto di vista retorico, di un anticipato segnale che prepara la cuticagna del v. 104.

78–82. non altrimenti ecc.: intendi: “allo stesso modo in cui l’anitra si tuffa improvvisamente sott’acqua quando si avvicina il falcone, riemergendo sull’altra sponda del ruscello, per esser sicura che il nemico non sia affogato, onde poter lottare con lui; così mi comportai io dopo l’interruzione che mi aveva impedito di parlare”. “Comparatio est propria ex omni parte sui” [la similitudine è appropriata in ogni sua parte] (Benvenuto) e, con “singolare efficacia” (Torraca) “rappresenta p44 la battaglia singolare” (Landino) di un’anatra ardimentosa, per la quale “nullo modo erat pugnandum” [non c’era altro modo di battersi] se non quello di attirare il predatore “insino al mezzo dell’acqua” (Buti), su un terreno, cioè, a lei favorevole. Pertanto, “probiter pugnans, remansit in campo dicti fluminis” [essa restò lealmente, a piè fermo, in mezzo al fiume, affrontando la lotta in campo aperto] (Benvenuto).

81. che quei campasse: l’anitra teme “alcuno fallo o difetto” (Ottimo) nel volo del falcone che cadendo morirebbe subito nell’acqua con la stessa facilità con cui “moritur piscis extra aquam” [muore un pesce fuori dall’acqua] (Benvenuto). Ciò impedirebbe all’anitra la gloria dello scontro, essendo evidente che (è sempre il Benvenuto che parla) “dignitas temporalis vanescit per mortem” [la dignità di questo mondo è resa vana dalla morte].

82. tal mi fec’io ecc.: il confronto con l’anatra ardita ben definisce la “magnanima e chiusa fierezza” di Dante (Sapegno) di fronte alla screanzata interruzione di Gruccio che gli ha troncato la parola in bocca. Circostanza tanto più incresciosa per Dante in quanto, come ci informa il Benvenuto, il poeta era stato tra quegli “iuvenes florentinos” [giovani di Firenze] che il maestro Brunetto Latini “fecit magnos eloquentes” [aveva reso gran chiacchieroni].

83. E sé continuando ecc.: in questa maniera, che non concede alcuno spazio a Dante, Gruccio “manifestabat appetitum loquendi” [manifestava una voglia incontenibile di parlare] (Benvenuto), ribadita dal lascia parlare a me del successivo v. 85.

84. Ma perché paia ben ecc.: intendi: “ma perché sia chiaro una volta per tutte ciò che a prima vista non appare tale...”. A proposito di tutto il discorso di Gruccio (di cui — come dice il Sapegno — “il Baldelli ha giustamente sottolineato l’effetto di ‘accumulo drammatico’ ”) sono interessanti le considerazioni di B. Terracini (cfr. AA. VV., Letture dantesche in “Lettere Italiane”, VI, 1954): “questo spirito così guardingo e ragionatore si dimostra ciecamente ignaro dell’errore che lo insidia al fondo della sua stessa argomentazione. Più parla sicuro, più poeta e lettore lo vedono brancolare nel vuoto”. Ma proprio questa impressione serve al poeta per accentuare il coup de théâtre finale del canto, quello dell’assunzione in cielo di Gruccio “che si rivela in tutta la sua ampiezza e il suo orrore, dopo che il commento politico ne ha analizzato in termini concreti gli effetti e la portata di universale corruzione” (Torraca).

85–87. ch’i’ ho concetto ecc.: intendi: “qui all’inferno, escluso dalla comunità dei beati, io ho compreso la giustizia divina con più certezza di quella di tutte le chiacchiere e che si fanno intorno ad essa”. — concetto: “part. pass. del. v. concepire” (Siebzehner-Vivanti).

86. con maggior chiovi: con chiodi più saldi, “e fig., argomenti per confermare un concetto” (Siebzehner-Vivanti). Per la forma con la “v” al posto dell’odierna “d”, presente anche nel verbo che dal sostantivo deriva, si veda l’e io senti’ chiavar l’uscio di sotto di Inf. XXXIII, 46, tragico verso che ha fatto sorridere di nascosto, con la testa sul banco, generazioni di studenti e studentesse liceali. — altrui sermone: i discorsi di coloro che, nell’elencazione di Fra Giordano da Pisa, vanno “predicando povertade, castitade, umiltade, penitenza e ’l disprezzamento del mondo”.

87. interdetto: scomunica. L’uso di questa parola sulle labbra di Gruccio, per indicare la sua attuale condizione infernale di separazione da Dio, è molto sottile, visto quello che gli sta per accadere e che egli prevede. Infatti “ben che si dolesse della dannazione” (Buti), qui Gruccio nelle sue parole fa risuonare indirettamente un concetto del solito Fra Giordano da Pisa secondo cui “la scomunicazione non lega al ninferno e non ti può torre Paradiso”.

88. con aperta ragione: secondo ciò che “piace alla ragione e alla iustizia” (Lana). In altre parole Gruccio “intendit ostendere pulcra ratiocinatione quod ascensus ad caelum est naturalis” [intende dimostrare con un elegante ragionamento che la sua ascesa al cielo è naturalmente inevitabile]; insomma si esprime come “si possibile esset per rationem naturalem et scientiam acquisitam cognoscere divinitatem [come se fosse possibile comprendere le logiche divine col semplice uso della ragione naturale e della conoscenza acquisita] (Benvenuto). Il Buti ritiene questo tentativo “alienato da’ sensi e dalla ragione”, ma osserva anche, sornione, che, comunque, “posto lo fondamento della fede, possiamo argomentare e provare ogni conclusione”.

89–91. l’esser qua giù ecc.: intendi: “il fatto di essere attualmente all’inferno, dopo aver lasciato la terra che è il luogo dove ci si guadagna la salvezza eterna, è una piccola perdita, un nulla, poiché la mia permanenza qui è di breve durata”.

89. qua giù: nel “diritto centro, ove noi crediamo che sia il ninferno” (Fra Giordano Da Pisa), nel quale i peccatori “senza fine si dogliano” (Ottimo). — il dolce loco: il mondo. A proposito del dolce, il Buti osserva che “l’autore parla secondo la condizione della persona introdotta”, cioè di Gruccio, che “fu omo di diletti in fine all’ultimo”, ritenendo che “dominia et imperia temporalia” [il dominio e il potere su questa terra] rappresentassero “statum felicem hominis” [l’assoluta umana felicità] (Benvenuto). Anche Pietro di Dante parla delle sue “mondane e viziose delettazioni”. Insomma, qui “Dante ha intuito il legame che avvince il suo personaggio a quell’ambiente e, rappresentando il mondo di intrighi e di violenze, di prepotenze crudeli e di volpine astuzie, pone le premesse al grande episodio che segue” (Sapegno).

90. ch’è principio ecc.: date le premesse, “quod dictum videtur mirabile, quia videtur implicare contraddictionem” [questa affermazione appare stupefacente, poiché sembra implicare una contraddizione] (Benvenuto). Il Buti cerca di risolvere l’antinomia dando la spiegazione che segue (in verità piuttosto farraginosa): poiché “li dannati sono la perdita dei cieli, Iddio vuole che, se tu se’ infidele, sii, dannato; ma potrà tanto amore in Dio essere in te e sì viva speranza, che Iddio vorrà che quella prima voluntà non si tollia (ché ella sta pur ferma, che ogni infidele è dannato), ma vuole Iddio che si trovi modo che si torni all’ordine che non sia infidele, ma diventi fidele; e così sta sempre ferma la voluntà di Dio, assoluta e condizionata”. Di fatto la perfetta rispondenza al vero dell’affermazione di Gruccio, secondo la quale la vita mondana è la via della salvezza, è dimostrata, non solo dalla consequenzialità formale della successiva argomentazione, ma anche, e soprattutto, dall’evento miracoloso che, immediatamente, la conferma.

92. L’Angel di Dio: “vuole dinotare la giustizia e la misericordia di Dio” (Anonimo Fiorentino), o anche “lux divina et amor divinus” [la luce e il divino amore] (Benvenuto). Il Porena, non si sa bene su quali basi, ipotizza che si tratti “dell’arcangelo Gabriele”. — la soglia: “il cammino per lo quale si va in Paradiso” (Ottimo). Interessante l’interpretazione del Buti, secondo cui “questo portonaio, che l’autore finge qui, secondo la lettera, che sia un angelo, significa allegoricamente lo sacerdote lo quale è portonaio della penitenzia”.

93. de le magiche frode ecc.: ebbe “cognizione de’ vizi, che si commettono sotto fraude” (Gelli). È questa una materia della quale Dante era profondo conoscitore in quanto “nell’esilio diventò un uomo di corte, un negoziatore politico: e il consigliar frodi e ordire inganni sarebbe potuto divenire per lui un peccato professionale, un vizio del mestiere” (D’Ovidio, Studi sulla “Divina Commedia”, 1901, p. 89).

94. che mai non empie ecc.: che non sazia mai. — bramosa voglia: Gruccio si esprime “come fanno coloro che più vogliono le loro parole imprimere nell’intelletto dell’uditore” (Boccaccio); da questo dipende la ridondanza della locuzione.

95–99. ma perché frode ecc.: intendi: “ma poiché la frode è male naturale dell’uomo che cresce sempre con immutato rigoglio, l’angelo aprì le braccia e dispiegò le ali sotto le quali ognuno si trasfigurò, perdendo la caducità terrena della propria espressione bestiale e assumendo la perfezione eterna della gloria celeste”.

95. la frode è dell’uom proprio male: è vero, infatti, che, come dice il Benvenuto, la frode è “inveteratam meretricem, quae ab initio mundi seduxit hominem” [puttana incallita che ha sedotto l’umanità dall’inizio del mondo], ma proprio per questo essa è “attractio innata, scilicet ordo naturalis” [attrazione innata, cioè legge naturale] verso la quale “homo naturaliter inclinatur” [l’umanità inclina naturalmente], tanto che non seguirla sarebbe lo stesso che mettersi “extra viam naturae” [contro natura], cioè contro Dio stesso il quale, come dice il Buti è “Natura naturante che ordinò per sì fatto modo la natura che ogni cosa riuscisse bene”. Concetti ribaditi alcuni secoli dopo dal Tommaseo secondo il quale: “la natural disposizione è misura anco a’ doni celesti”.

96. frutta sempre ecc.: si tratta, come osserva il Buti, di “sozzo guadagno”, in quanto, come si legge in Luca VI, 44, “unaquaeque enim arbor de fructu suo cognoscitur” [ogni albero si riconosce infatti dai suoi frutti]. — foglie: “foglie d’ariento inorato con gemme preziose e con perle” (Buti).

97. le braccia aperse ecc.: “sì pronta misericordia” p46 (Anonimo Fiorentino) “venit ex alta providentia Dei” [promana dall’alta provvidenza divina], poiché Dio “fecit ipsam naturam angelicam tam grandem et capacem tantae gloriae et amoris” [poiché Dio creò la natura stessa degli angeli così grande, gloriosa e capace di tanto amore] (Benvenuto).

98–99. sotto le quai ecc.: Gruccio sostiene che la misericordia divina “mediante il suo serafico amore” (Vellutello), salva le anime dei dannati. Si tratterebbe, in altre parole, di quello che il Cesari chiama “effetto dell’amore gratuito”. — muso, corruttibile ancora: è “l’anima vivente dell’uomo” che “prende la materia d’animale” (Tommaseo). Muso è infatti “termine spesso usato da Dante per i dannati dell’Inferno, dato lo stato di abbiezione in cui son caduti” (Siebzehner-Vivanti). “Nota la concretezza dell’espressione” nell’ “agile trapasso dal tono lirico al tono satirico”, osserva ancora una volta il Momigliano.

100. ma perch’io non proceda ecc.: “quasi ponendo stanga e chiusura alla bocca” (Buti); infatti, nota il Benvenuto, per Gruccio la sua verità “debet esse nuda et aperta” [ha da essere nuda e accessibile], “ut facile sit — conclude Pietro di Dante — intus ingredi” [perché la si possa penetrare con facilità].

101–103. tal quale io dico, e’ fassi ecc.: intendi: “quello che io dico, è proprio ciò che l’angelo fa, esattamente, in modo tale che si possa ottenere il Paradiso senza che appaiano troppo evidenti le malefatte passate e le loro conseguenze future”.

101. io dico: chiosa il Benvenuto: “ex dictis elicit unam conclusionem generalem” [dalle sue parole Gruccio ricava una conclusione generalizzata]. — e’ fassi: “nota l’insistenza sul verbo” (Sapegno). A proposito di questo verso, sul piano stilistico, con acuta sensibilità musicale, sempre il Sapegno ne fa notare il “ritmo di contrappunto”.

102. sì che possibil sia ecc.: poiché “gratia est causa meriti, non meritum causa gratiae, ideo” [la grazia è causa del merito e non viceversa, proprio per questo] Gruccio “intendit dicere, quod recipere gratiam a Deo fuit meritorium beatitudinis” [intende dire che ricevere la grazia da Dio lo rese di per sé degno di beatitudine eterna] (Benvenuto). — in suso: in Paradiso.

103. perché men paia ecc.: dice il Benvenuto: “res inhonestae et infames solent velari” [le azioni disoneste e infami sogliono essere mascherate], altrimenti, aggiunge il Boccaccio, “danno e vergogna ne seguirebbe” per coloro che ne sono i responsabili o che ne sono ritenuti ispiratori e mandanti. In questa logica, per Dio e per la Chiesa, la salvazione di Gruccio rappresenta un passaggio essenziale. Bisognava fare in modo che egli “post ruinam factam, posset nunc aequaliter ire” [dopo gli scempi compiuti, potesse ugualmente salire in Paradiso] (Benvenuto), a dimostrazione che il danno prodotto nel mondo era “apparente, ma non essente”, poiché per definizione Dio “non può volere lo peccato e lo male” (Buti). Osserva il Momigliano: l’argomentazione, “snodatasi con sforzata fatica, come una grande spira, si svolge alla fine rapida e robusta e si chiude con un colpo netto”.

104. allor lo presi ecc.: “da notare la violenza crescente della rappresentazione che esplode in un gesto bestiale, di profondo significato simbolico” (Sapegno). “Furore biblico, passioni selvagge in tempi selvaggi!”, esclama il De Sanctis. Il Momigliano, invece, osserva che “la violenza si accompagna con la maestà del giustiziere”. — cuticagna: “la chioma dei capelli, che è nella collottola” (Buti). “La parola, che è del linguaggio umile e suona pertanto fortemente realistica, prende rilievo anche dai due accenti metrici principali che cadono sulla prima e terza sillaba (rispettivamente, ottava e decima del verso)” (Sapegno).

105–106. Perché hai tu ecc.: intendi: “perché tu, uomo dalla condotta guasta e disonesta, ti sei comportato così nei nostri confronti?”.

105. noi: mentre il Buti interpreta il pronome come riferito in generale a “li uomini che sono al presente nel mondo”, il Benvenuto ne restringe il significato attribuendolo agli “homines literatos et ingeniosos” [ai letterati e agli uomini di ingegno]. Suggestiva, anche se forse un po’ troppo modernamente connotata, la spiegazione del Salinari, secondo il quale il noi indica “la società civile sopraffatta dalla società politica”.

106. d’ogni costume ecc.: costume e magagna formano un’endiade, complicata dall’iterazione allitterante di ogne.

107. Oh, me dolente ecc.: si tratta, da parte del p47 poeta, della “recognitio erroris” [percezione chiara della colpa] di Gruccio (Benvenuto), la quale fa sì che “il turbamento della coscienza” sia ormai “superato nella luce di una convinzione fermamente accettata” (Sapegno).

108. Lèvati quinci ecc.: Dante ripete l’invito perentorio del v. 67. Ma qui “la frase di tipo parlato e popolaresco illumina, anche sul piano stilistico, il movimento polemico del discorso” (Sapegno), e, contemporaneamente, “aspreggia con violenta efficacia la degradazione che il peccato comporta, rimartellando gli accenti drammatici” (Roncaglia).

109. Tu non pensavi ecc.: “quasi dicat: in vita mea ego fui semper vir prudens, affabilis, rationalis, placidus multum de more philosophorum, obstinatus ad investigandam veritatem boni et mali quam scire desideras” [quasi a dire: nella vita fui sempre persona accorta, affabile, razionale, paciosa assai secondo il costume dei filosofi, ostinata tuttavia nella ricerca della vera essenza del bene e del male, che tu Dante desideri conoscere] (Benvenuto). Ancora Benvenuto osserva che il peccatore “hoc dicit, quia multi negant istam rationem” [fa questa precisazione perché molti negano codesta sua razionalità]. — loico: logico, “detto di persona che discorre a fil di logica” (Siebzehner-Vivanti).

110. a la risposta ecc.: per la seconda volta Gruccio “subito interrupuit sermonem” [all’improvviso troncò a mezzo le parole dell’interlocutore] (Benvenuto).

111–114. Cosa di là ond’io ecc.: intendi: “un’Entità terrena grazie alla quale io mi mossi nella vita, con i poteri divini di cui è depositaria, può sancire l’innocenza delle mie colpe”.

111. Cosa di là: la Chiesa “cioè quello luogo dove Iddio esaudisce li preghi de’ iusti” (Buti). Ma il Sapegno fa notare che, mettendo queste parole in bocca a Gruccio, è probabile “che qui Dante si rivolga piuttosto a quella Chiesa che ha voluto guidare a suo talento il cavallo italiano”.

112. trattando l’aere ecc.: l’espressione “figurat regimen et potentiam Ecclesiae” [l’espressione simboleggia il dominio e la potenza della Chiesa] (Pietro di Dante), cioè quei poteri che essa esercita su “quicquid potest cogitari mentaliter, moveri localiter in universo” [tutto ciò che può essere mentalmente concepito o localmente agito nell’universo] (Benvenuto) — etterne: “nichil de divinitate mutatum est, quamvis mutaretur forma Ecclesiae” [benché la Chiesa mutasse forma, la natura della divinità di cui essa è incarnazione è sempre restata eternamente uguale a se stessa] (Benvenuto). Sul piano espressivo, il verso ha colpito più di un commentatore. Valgano per tutti E. Pistelli (tra il tredicesimo e il quattordicesimo rigo del saggio sul Canto XXXIII del Paradiso, Firenze, 1922) che si entusiasma di fronte alla “solennità ieratica” di un “verso gravissimo e pieno”, e E. G. Parodi (cfr. Bull. Soc. Dant. I, III, 88), che parla di “uno dei più bei versi di Dante”. Di fronte alle penne, il Momigliano, come sempre molto reattivo, avverte la sensazione di “un turbinoso volo” che si “corona trionfalmente”.

113. di quel ch’io m’accuso: “ob culpam suam in genere” [per le sue colpe in generale] (Benvenuto). Ma la situazione psicologica del personaggio è qui molto complessa: infatti, come precisa lo stesso Benvenuto, Gruccio “dum nititur se excusare, se accusat quia voluit potius contra conscientiam complacere Bonifacio, quam displicere illi pro salute animae suae” [nel momento in cui volente giustificarsi, per farlo si accusa di aver preferito compiacere Bonifacio VIII contro coscienza, piuttosto che dispiacergli secondo coscienza e per la salvezza dell’anima sua]. È un modo, questo, col quale egli “quasi si scioglie e difende dalla colpa”, e tuttavia, benché sappia “che è fuora di ogni colpa, nientedimeno si vergogna” (Landino). Nel suo atteggiamento resta, comunque, una “contraddizione evidente”, come osserva il Sapegno, poiché non “è possibile pentirsi della colpa e al tempo stesso volerla commettere”, tanto più se si tratta, come Dante aveva cominciato a dire prima di essere interrotto, di “una colpa, che rivela tutta la sua ampiezza e il suo orrore, di universale corruzione”. Il critico dimentica, tuttavia, di aggiungere che ogni contraddizione svanisce come nebbia al sole se, come fa Gruccio, pur nel suo viscido contorcimento di attegiamenti e di parole, si è imboccata con decisione la via dell’impenitenza.

114. tale innocenza ecc.: Gruccio si riferisce al perdono e all’assoluzione decretatagli sulla terra (là giù) dalla Chiesa di Roma. Di questa benignità e larghezza assolutoria caratteristica della Chiesa e dei suoi sacerdoti parlano numerosi commentatori: “sacerdos debet esse magis promptus ad absolvendum quam ad negandum absolutionem” p48 [il prete dev’essere più propenso a dare che a negarte l’assoluzione] (Benvenuto); “ ’l sacerdote de’ essere presto ed apparecchiato”, poiché deve tenere sempre presente che molti sono “assoluti e liberati dal peccato per la predestinazione divina” (Buti). È per questo che, aggiunge il Porena, un uomo, una volta abbracciata la dottrina cattolica, può anche indursi “a peccare per la convinzione di essere anticipatamente assolto”.

115–121. Così de l’atto suo ecc.: intendi: “pertanto dall’assoluzione della Chiesa (l’atto suo), comunicata con un semplice cenno di intesa degli occhi, deriva la speranza di quelli che le sono stati fedeli come me; infatti, così come chi scende risalirà poi inevitabilmente al Paradiso, anch’io dovrei essere ormai incamminato sul sentiero della beatitudine, quasi non credendo devotamente alle mie stesse parole”.

115. de l’atto: dall’atto.

116. quel che spera: è una “speranza d’aiuto, d’ottenere ogni grazia” (Buti), essendo per Gruccio la Chiesa proprio “quello in che sta e fondasi la speranza” (Landino). Oggi penseremmo a una specie di raccomandazione.

117–118. sì come torna ecc.: per comprendere il significato di questa affermazione nel quadro più generale della condizione e del destino umano, si veda il primo canto del Paradiso laddove, mentre Dante in carne ed ossa comincia la sua vertiginosa salita, Beatrice gli spiega maternamente che “ascensus ad coelum est naturalis, quia homo naturaliter inclinatur ad summum bonum” [l’ascesa al cielo è secondo legge di natura, dato che l’uomo naturalmente inclina verso il sommo bene] (Benvenuto). E se lo dice Beatrice c’è da credergli. D’altra parte ancora in Par. X, 87 Dante farà dire a S. Tommaso che la scala dei cieli è un luogo u’ sanza risalir nessun discende (“da cui nessuno discende che non sia predestinato a risalirla”, come spiega bene il Sapegno).

118. Figliuol di Dio: Cristo che “via maggiormente è padre e signore dei beati” precisa il Buti, il quale un po’ a sproposito — dato il contesto — esclama: “altissima cosa fu tirare l’umanità a tanta altezza che si congiungesse a Dio, magnifica cosa fu dare Iddio lo suo figliuolo per noi!”. Il Tommaseo osserva che qui Gruccio “vede i beati illuminati da Cristo”.

119. sarei: “dalla forma assoluta del condizionale” (Terracini) è ben delineato il “contegno ambiguo e vile” del personaggio (Sapegno), ripreso e sottolineato dall’in atto pio del verso successivo.

119–120. lo sentiero di ecc.: è la “via di salvazione” (Anonimo Fiorentino).

120. in atto pio: Gruccio vuol dare ipocritamente di sé l’immagine di “vir simplex et rectus ac timens Deum, longo tempore durans sancte iuste ac pie vivendo” [uomo semplice, retto e timoroso di Dio, che è campato molti anni, santamente, onestamente e devotamente vivendo], secondo la descrizione di Tommaso da Celano in Vita Prima, I, 19.

121. credendo e non credendo ecc.: Gruccio, continuando nella sua recita di candore devoto, “obstupescit” [manifesta stupore] (Benvenuto) di fronte a tanto destino di salvazione. In questo verso, “più che altrove, prende risalto l’ingegnosità del procedimento” dantesco, di “efficacia illuminante, ai fini della rappresentazione della furberia politica” del personaggio (Sapegno) e della sua ipocrita e spregevole doppiezza.

122–124. Dirittamente senti ecc.: intendi: “hai tanto esattamente individuato il rapporto che intercorre tra la natura celeste e il ministero della Chiesa sulla terra, da comprendere come fra i due vi sia perfetta corrispondenza”.

122. dirittamente: l’evidenza dell’avverbio all’interno del verso serve a sottolineare che le affermazioni di Gruccio, secondo la Voce che interviene, “sono congiunte con la prima Veritade, e da essa non torcono” (Ottimo). Molto finemente il Buti osserva che questa solenne forma è usata dalla Voce non sole “per maggior demostrazione d’alcuna special verità”, ma anche per disprezzare gli “omini grossi d’intendimento”, cioè coloro che, nonostante l’evidenza, non hanno ancora capito come stiano veramente le cose.

123. ’l ministero: gli uomini della Chiesa, coloro che “ministrant et portant istam gratiam” [amministrano e distribuiscono la grazia di Dio] (Benvenuto). Ma già Domenico Cavalca (1270–1342) nel suo Trattato dei peccati aveva notato che essi ormai, da “ministri e dispensatori dei beni della Chiesa”, erano divenuti “furi e scorticatori” della gente perbene.

124. confondere: “mescolare fra di loro” (Siebzehner-Vivanti). p49 Ma è più probabile che la parola sia qui usata nel senso strettamente etimologico di “fondere insieme” facendo un tutt’uno da non potersi distinguere.

125. Così per una Voce ecc.: alla luce del verso successivo la chiosa del Buti, secondo cui “questo si può intendere che fussi parlare dello angelo”, non pare adeguata. Più persuasiva, dunque, l’interpretazione moderna del Del Lungo, secondo il quale si tratta della voce stessa di Dio “testè con gli organi corporei rivestita”.

126. a cui tutti li tempi ecc.: “cum Deus sit ubique” [dato che Dio è come il prezzemolo] (Pietro di Dante), la caratteristica si adatta perfettamente a “Deus pater omnipotens, qui est primus sine principio et infinitus” [Dio padre omnipotente, che è primo senza principio ed infinito], il quale “omnia comprehendit et continet in se” [il quale ogni cosa riassume e contiene in sé] (Benvenuto).

127. nel petto mio: “nel petto di Dio” (Landino), o anche “nel cuore suo” (Anonimo Fiorentino). Si tratta, comunque di “intrare regnum desideratum” [entrare in Paradiso] (Benvenuto).

127. spira: inspira, inala. — tue: forma toscana parlata che sta per il più letterario tu che è, come chiarisce bene il Siebzehner-Vivanti, “pron. pers., della 2ª p. sg. quale soggetto”.

128. l’amor che move ecc.: osserva il Benvenuto che l’amor divino “potest faciliter movere aerem et aquam et turbare alia elementa” [può senza sforzo rimescolare l’acqua, l’aria e tutti gli altri elementi]. Precisa, infatti, l’Ottimo che tutto l’universo “dall’amore d’essa divina mente riceve movimento e luce e non da altro”; parole che non sono che un modo diverso per per esprimere il popolare concetto secondo cui “non si muove foglia che Dio non voglia”. Tra i moderni è degno di nota il giudizio sensibilissimo del Sapegno, secondo cui si tratta di un “movimento alacre e lieve” che “sfuma in una luce di idillio”.

129. Or va: “la incitazione è posta” (Buti) “ut anima vadat ad coelum et videat Deum” [perché l’anima di Gruccio si elevi al cielo verso la contemplazione di Dio] (Serravalle), o anche si elevi “de statu servili mondano ad civitatem coelestem” [dal mondano stato di cattività alla Gerusalemme celeste] (Pietro di Dante), o, infine, proceda “a centro terrae usque ad summum coeli” [dal centro della terra, dove è localizzato l’inferno, fino all’Empireo cielo] (Benvenuto). — un sol volere è d’ambedue: è la perfetta coincidenza tra l’umana “volontà respettiva” a la divina “volontà assoluta” che, è “intelligenzia senza difetto e volontà ferma e invariabile” (Buti). Questa circostanza fornisce a Gruccio “quanto è bisogno a volere seguire infino in sullo empireo cielo” (Ottimo), poiché, come afferma ancora il Buti, sarebbe “mal combattimento quando una volontà, che non sia sì buona come un’altra”, combattesse “contro quella ch’è migliore”. Ma l’espressione che Dante mette in bocca alla Voce indica che fra Lei e Gruccio “intellectus et voluntas sic se habent ad invicem [l’intelletto e la volontà stanno in tale rapporto fra di loro] (Serravalle) che, come dice il Vellutello, la figura del peccatore sembra “farsi simile a Dio”. Le parole producono, comunque — osserva il Sapegno — “una condizione psicologica perturbante”, creando opportunamente “uno degli elementi che concorrono a determinare la situazione di attesa e di liberazione” del dannato la cui volontà è quella di “uscir fuori presto” dalla sua incresciosa condizione.

130. più fiammelle: “erano le facce degli angeli in forma di fiamma, a dinotare l’ardentissima carità” che, nella circostanza, “per la letizia mandavano fuori di loro” (Landino). Ma altri commentatori fanno di questa caratteristica una condizione innata della natura angelica, non legata ad alcuna contingenza. Così il Benvenuto (“omnes angeli dicuntur ignei” [ardenti son detti tutti gli angeli]), ed anche il Lana (per il quali gli angeli sarebbero “di natura calda e secca simile a quella del foco”). Sul piano semantico questa caratteristica di fuoco potrebbe avere qualche rapporto col concetto contiguo di ardore amoroso (“igneus: ardens amore ferventissimo” [igneo: ardente di focosissimo amore], precisa ancora il Benvenuto). Nell’espressione potrebbe dunque ancora risuonare alla lontana, come tarda e stanca scolatura, l’eco della nota disputa sul sesso degli angeli.

131. di grado in grado: “il terzo grado era fiammeggiante” (Anonimo Fiorentino). Sarebbe, in certo modo, una sottile allusione a qualche guaio con la giustizia che avrebbe coinvolto Gruccio. Ma l’interpretazione dell’antico commentatore appare, francamente, un po’ forzata. — girarsi: “come li cerchi girano in su li perni che stanno saldi, così giravano p50 quelli beati spiriti” (Buti).

132. e ogne giro ecc.: “la descrizione dei giranti commove di quando in quando liricamente le parole di Dante” (Momigliano).

133. sì del cantare ecc.: “omnes coeperunt canere et scintillare per tremulam scintillationem lucis” [cominciarono tutti a cantare e a lampeggiare con tremula intermittenza luminosa] (Benvenuto). A proposito del fiammeggiarsi, il Venturi sente il bisogno di precisare che “in questa parola è compresa l’idea del fiameggiare” (lo si cita solo per scrupolo di completezza filologica).

134. al piè de l’alta ripa ecc.: alla base del “pendio roccioso circostante” (Scartazzini-Vandelli). Si noti la finezza della situazione creata dal poeta allo scopo di rendere più evidente il contrasto con quello che accadrà di lì a poco: le angeliche scintille si posano sul fondo della bolgia dove si trova Gruccio; si tratta di “luogo bassissimo di tutti gli altri del mondo” (Buti), “la cui gravezza ed oscuritade era tanta” (Ottimo), e dove dunque, normalmente, “non vale penitenzia né emendazione” (Landino). E invece...

135. come nel percuoter ecc.: “cum clamore magno” [con gran fracasso] (Benvenuto): è il rumore del divino carro che viene a posarsi al fondo della bolgia. Dante lo paragona a quello che fanno i bambini certe sere d’inverno, secondo un’abitudine così descritta, sempre dal Benvenuto: “Est de more in partibus Italiae, quod pueri, stantes in hyeme de sero iuxta ignem percutientes stipitem, augurantur sibi dicentes: Tot civitates, tot castella, tot agnelli, tot porcelli. Et ita transeunt tempus” [è usanza, in alcune parti d’Italia, che i bambini, stando le sere d’inverno presso il focolare a ritmar colpi sul ciocco, facciano i pronostici per il futuro cantilendando: Tanti paeselli, tanti castelli, tanti agnelli, tanti porcelli] (Benvenuto).

136. un carro ecc.: si tratta, per Gruccio, di un “inusitato e pomposo onore” o, meglio, di un segno “d’onore e di pompa” (Boccaccio), soprattutto se si considera, come fa il Sapegno, che il carro in su due rote (una specie di biga) e il triunfale rimandano alla “grandezza antica” di Roma. Anche il Buti osserva che in questo modo “si dimostrava la magnificenzia”. — triunfale: tale che “in apparenza monstrava segno di vittoria” (Anonimo Fiorentino).

137. ivi: è il richiamo sintattico insistito all’ambiente dove avviene il prodigio (“in loco basso“ [nel bassomondo infernale] come dice Benvenuto), onde sottolineare ancora il “contrasto” dello splendore del carro “con l’oscurità del rimanente del luogo” (cfr. G. Antonelli, Studi particolari sulla Divina Commedia, I, Firenze, 1871). — visione: “visione beatifica” (Buti). “Il primo atto è nella visione”, osserva acutamente l’Ottimo con chiaro riferimento alla esibita teatralità del colpo di scena (cfr. anche la nota al v. 84).

137. mi parve...visione: la ridondanza rende più vivida nell’immaginazione del lettore la natura dell’evento spettacolare.

138. tendeva in sù: “quod volebat ascendere” [perché non vedeva l’ora di salire] (Benvenuto). — l’una e l’altra ale: poiché “chi non ha le ali non è in grado di volare” (Siebzehner-Vivanti), il carro che sta per assumere in Paradiso Gruccio non può che essere dotato di tali appendici. Tuttavia esse hanno anche il significato più ampio di compiacenza da parte del Creatore nei confronti del peccatore: infatti, come osserve ancora il Siebzehner-Vivanti, “le ali sono simbolo di protezione” (v. anche il v. 97).

139. sì come quando ecc.: intendi: “come quando il colombo sta per spiccare il volo”. “Il paragone riecheggia il tema” del momento di “tensione fantastica” che precede lo staccarsi da terra, “compendiandolo e sigillandolo in una formula di stupenda brevità” (Sapegno). Un’impressione simile aveva espresso anche il Torraca, il quale aveva parlato di parole che “fanno sentire meglio quanta tensione albergasse in quell’atmosfera”, precisando come in esse sia palpabile “il presagio di immediata liberazione”. — si pone: il verbo porre è usato qui nel significato di “dirigere i desideri” (Siebzehner-Vivanti). Nel caso specifico si tratta del desiderio di levarsi in volo.

140. che ’ntese: è il segno della particolare perspicacia di Gruccio, individuo “pratico e accorto” (Buti) che, “ascoltando intentamente e guardando intensamente” (Del Lungo) in quell’ “aura stupefatta, gravida di rivelazioni e di prodigi” (Sapegno), ha già compreso perfettamente ciò che sta per accadere.

140–141. non s’infinse ecc.: intendi: “non mascherò, voltandosi dall’altra parte e parlando fra sé, il desiderio di salire”.

141. girando e mormorando: come fanno coloro p51 che, per modestia, non vogliono esibire i loro successi. In questo modo Gruccio, cancellato il falso ritegno dei vv. 117–121, non mostra più “di non voler quello che egli vuole, o di che egli si cura che avvenga” (Boccaccio). — l’affezione: “idest affectionem in ipsum bonum cognitum” di Gruccio, “qui incipiebat intrare regnum desideratum” [cioè il grande desiderio, di Gruccio, che era sul punto di entrare nel regno bramato, derivante dalla conoscenza diretta del Sommo Bene] (Benvenuto). Secondo il Buti la parola indicherebbe invece il “desiderio e contentamento d’esser obediente al suo Fattore”. Ma è interpretazione meno probabile.

142. piuttosto, dentro ecc.: intendi: “invece condensò dentro di sé tutta la gioia della sua nuova, ‘diversa’ (Siebzehner-Vivanti) condizione”. Il verso “esprime un più intenso raccoglimento del dannato sulla sua meraviglia” (Rossi). Osserva il Boccaccio che “la novità avviene incontamente”.

143. perch’io mi mossi ecc.: “sicut animal per motum vel tremorem pellis” [come una bestia che trema tutta pelle in pelle] (Benvenuto). Indica la tensione del gesto di Dante che vorrebbe mettere le mai addosso al dannato, “simile ad improvviso guizzo” (Sapegno). È un movimento incontrollato del poeta, che avviene “secondo la sua inclinazione naturale”, e, più in generale, secondo “la legge naturale che è scritta nel cuore dell’uomo”; pertanto non ha “in sé né merito né demerito; imperò che dice lo Filosofo che i primi movimenti non sono in nostra podestate” (Buti).

144. e, come ambo ecc.: “seguitando lo scorrimento dei miei occhi” (Buti). Il verso “ripete, in forma più densa, ma anche più immaginosa e meno intellettualistica”, il concetto dei vv. 12–13; “e non sfugga il sottile rapporto che, proprio in virtù di questa immagine, si istituisce fra la condizione di Dante e quella” di Gruccio (Sapegno). — ambo le luci: l’insistenza (ambo) sulla ovvia dualità degli occhi ha un significato allegorico: essi, infatti, “sunt intellectus et in praeteritum et in futurum, uti dicit Hieronymus in prologo libri Regum” [rappresentano la conoscenza del passato e del futuro, come dice San Gerolamo nell’introduzione al Libro dei Re] (Pietro di Dante).

145. rividil più lucente: Dante “subito vidit ipsum de propre splendidissimum” [improvvisamente lo vide tutto risplendere di una luce abbagliante] (Benvenuto). Gruccio “produce fuor di sé lo suo splendore e la sua luce” (Buti). Spiega il Serravalle: “nam est opinio sanctorum doctorum, quod, ut anima vadat ad coelum et videat Deum, datur sibi a divina gratia quaedam lux elevativa, qua mediante anima sic elevata fit disposita ad videndum [è infatti opinione dei Padri della Chiesa che, per far sì che l’anima possa salire al cielo a contemplare Dio, gli sia fornita da parte della Divina Grazia quella che si potrebbe definire una luce elevativa, per mezzo della quale l’anima, dotata dell’attrezzatura necessaria alla visione, comincia a salire] (Serravalle). — maggior fatto: Gruccio cambia “la qualità, che è colore e luce, e la grandezza” (Lana). Secondo G. Petronio questo ingigantirsi del personaggio sarebbe “immagine e allegoria della passata condizione terrena” (cfr. Nuove letture dantesche, II, 1969). Invece per Benvenuto questo giganteggiare (“iste videtur esse altus per staturam unius hominis” [costui appare alto rispetto alla statura normale di un uomo]) indicherebbe figuralmente la sensazione di Dante che si sente oppresso dall’angoscia come accade in chi soffre di incubi: “et notandum est quod est quoddam genus morbi naturalis accidens homini in nocte, in somnio, quia videtur ei, ut audio ab expertis, quod habeat totum mundum super se, et videtur suffocari sub nimio pondere; et vocatur a phisicis incubus” [e bisogna sapere che esiste una particolare specie di affezione naturale che colpisce la gente di notte: quando, come mi è stato raccontato da persone che ne hanno sofferto, sembra loro, sognando, di avere tutto il mondo sopra di sé, tanto che si sentono soffocare sotto l’enorme peso: i medici lo chiamano incubo].

146. così sparì: osserva il Sapegno che, in questa ultima parte, Gruccio “entra in scena nell’alone di una visione angelica e torna infine a dissolversi in una misteriosa lontananza di soprannaturale fulgore”. Sul piano dell’efficacia espressiva si noti come la subitaneità del fenomeno sia accentuata dalla posizione del verbo proprio all’inizio del verso, isolato dal resto per mezzo del forte accento tonico (sparì) che evita l’elisione metrica con la vocale della parole (e) che segue. — mi levai: nel significato di “muoversi, iniziare un movimento, mettersi in moto” (Siebzehner-Vivanti).

147. però che l’occhio ecc.: in altre parole al poeta schizzano gli occhi fuori dalle orbite, di fronte all’incredibile spettacolo di Gruccio assunto in cielo: “quia salvus erat, quod Dantes non putabat” [poiché la salvezza di Gruccio era proprio l’ultima, l’ultima cosa che Dante si sarebbe aspettato] (Benvenuto). p52 Il Boccaccio vede invece nell’espressione una volontà di “levar dinanzi dagli occhi suoi tanta abominazione”. Curioso, ma efficace, il paragone inventato dal Lombardi (cfr. La Divina Commedia di Dante Alighieri, col commento del Padre B. Lombardi, Roma, 1791), secondo il quale Dante strabuzza gli occhi “siccome il pesce, tratto fuor l’acqua”.

148. e sanza udire e dir ecc.: giunti alla fine dell’episodio il verso ripropone “il movimento solitario” e “l’atteggamento trasognato e lento del pellegrino” descritti nei primi versi. Il canto, dunque, “si conclude come in un circolo, nel suo significato di limpita parabola, costruita su una trama di forti e evidenti antitesi” (Sapegno).

149–150. che trema vocali e consonanti: intendi “che rende instabili e inconsistenti la funzione e il significato stesso del le parole”.

149. queta: quiete. Effettivamente l’atmosfera generale del canto non è particolarmente movimentata o truculenta (se si esclude, forse, il v. 104). Ma è proprio questa caratteristica, quella che ci permette di cogliere uno dei dati più rilevanti e significativi dell’episodio. Sulla base di tale constatazione, già il Buti, infatti, aveva notato che l’accenno alla quiete, oltre il senso letterale, assume un potento rilievo psicologico, poichè indica “la pace, la quale è nell’animo” del poeta a cui si sostituisce quello che il Sapegno chiamerà il “turbamento della coscienza”. “Proprio da questo accostarsi tormentato ai temi di un’esperienza reale e personamente sofferta” — continua il Sapegno — “riaffiorano le note più dolenti del sentimento dantesco”, che “si colora di austera malinconia”, e nel quale prende “maggior rilievo e respiro più ampio e solenne l’anelito alla liberazione e alla pace. Sì che il tono, e il senso, dell’episodio si dispiega con coerente svolgimento”. — trema: “vibrat, tremit” [vibra, oscilla] (Benvenuto). Ma il verbo è qui, usato nel senso transitivo di “far vibrare, far tentennare, far oscillare”. Uso unico nel suo genere che produce una “affascinante struttura verbale” il cui “nitore e l’esattezza quasi tecnica della rappresentazione” (Sapegno) sono accentuati e resi più evidenti non solo dal forte enjambement, ma anche dalla particolarità dei due oggetti su cui il verbo esercita la sua azione, rompendone la tradizionale “stilizzata geometria in una impressione di mobilità incessante e turbinose” (Sapegno).

150. vocali e consonanti: le vicende a cui il poeta ha appena assistito “fanno un viluppo tra sé, e avviluppano il sentimento e il pensiero, e quindi la parola di Dante” (Tommaseo), cosicché “il fatto” non può essere “vestito bene colle parole, come si conviene” per “romprere questa pietra della durezza e ostinazione” (Anonimo Fiorentino), propria dell’incredibile evento che si è verificato di fronte ai suoi occhi. Da qui la sensazione che le componenti elementari del linguaggio convenzionalmente articolato (le vocali e le consonanti) non possano più esprimere “parola in forma che si possa chiaramente intendere” (Vellutello). Non resterebbe dunque che un “impasto di sonorità verbali” che di lì a poco “si condenserà nel ritmo di una commedia grottesca” (Sapegno). Ma, francamente, un giudizio del genere sull’intero poema mi pare un po’ eccessivo.

151. la mente mia ecc.: improbabile e banalmente impressionistica l’interpretazione del Landino (“né andava a dirittura questo fesso”), ripresa dal Vellutello che, alla parola scema, chiosa: “cioè alla sua stultizia”. Già il Benvenuto aveva, infatti, chiarito che in questo verso “auctor non nominat determinate deficientiam” [il poeta non fa assolutamente specifico riferimento alla deficienza], e aveva spiegato che, nella circostanza, Dante, “quasi confusus” [come disorientato], diviene “lentus et quasi somnolentus” [torpido e mezzo addormentato], tanto da non avere il coraggio di “solvere linguam; quasi dicat: mea speculatio non sufficit ad videndum et cognoscendum”, [aprir bocca; come a significare: la mia mente non arriva a vedere e a conoscere]. Si tratterebbe, dunque, “ut tradunt Hippocras, Galienus, Avicenna et alii physici” di “oppressio cerebri cum oblivione et continuo somno” [come affermano Ippocrate, Galieno, Avicenna e altri medici, di oppressione dell’encefalo caratterizzata da amnesia e continuo stato di sonnolenza]. Insomma, per sintetizzare il tutto con una efficace espressione presa in prestito dal Boccaccio, si potrebbe concludere che Dante “era rimaso fieramente turbato e tutto in sé medesimo si rodea”.

p53

APPENDICI

p55

I.

Accanto a ciascun verso del “Gruccio”, è indicata la fonte di riferimento nei vari canti del poema. Per i versi 23 e 24 si specifica anche il tipo di variatio intervenuta.

[N.B. — Si è usata una certa libertà sul piano dell’interpunzione e degli altri segni diacritici che, d’altronde, ai tempi di Dante non erano quelli che si usano oggi]

E, come l’uom che di trottare è lasso, poi fummo fatti soli procedendo di corno in corno e tra la cima e ’l basso. Ci sentivano andar; però, tacendo tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava; per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo. E videmi e conobbemi e chiamava e cominciò, raggiandomi d’un riso. Pensa, lettor, s’io mi maravigliava come chi trova suo cammin riciso da quella parte onde ’l cuore ha la gente. Io mi volsi ver lui, e guardail fiso molto di là da quel che l’è parvente. E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia, ancor fia grave il memorar presente, ch’a così fatta parte si confaccia di ragionar coi buoni, o d’appressarsi». E al maestro mio volse la faccia oltre quanto potean li occhi allungarsi. E sé continuando al primo detto, come sotto li scudi per salvarsi, guardommi, e con le man s’aperse il petto: «Tu dei saper ch’i’ fui de’ Bardonecchi,           (conte Ugolino) Gruccio nel volto dal mento al ciuffettop56 (fesso) che recherà la tasca con tre becchi che mai da circuir non si diparte. Spesse fiate m’intronan li orecchi, le spalle e ’l petto e del ventre gran parte; e fanno un gibbo che si chiama catria, sì come mostra esperienza e arte, che suole esser disposto a sola latria; che truono accoglie d’infiniti guai e non molto distanti a la tua patria». Allor conobbi chi era, a pregai: «Perché tanta viltà nel core allette? Perché ardire e franchezza non hai nel suon de le parole maladette? Perché hai tu così verso noi fatto?» «Ma Vaticano e l’altre parti elette, che membra feminine avìeno e atto», rispuose poi che lagrimar mi vide, «falsava nel parere il lungo tratto che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride, perché diede ’l consiglio frodolente. Così fec’io, poi che mi provide che, dove l’argomento della mente fa crastino là giù de l’odierno, non si pente chi guarda sottilmente e che sempre riman tra ’l sole e ’l verno. Ma se presso al mattin del ver si sogna di che ragiono, per l’arco superno stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna beati, quorum tecta sunt peccata, mettendo i denti in nota di cicogna non sanza prima far grande aggirata. Né per esser battuta ancor si pente, cantando come donna innamorata che di foco d’amor par sempre ardente, la mente mia che di sé fa letizia. Nessun riparo vi può far la gente, quand’io procuro a’ mia maggior trestizia!». Allor mi pinser li argomenti gravi di fede, e non d’eretica nequizia, soffiata e stretta da li venti schiavi,p57 c’ha disviate le pecore e li agni, calcando i buoni e sollevando i pravi: «Con noi per poco, e va’ là coi compagni!», diss’io, «là dove (di’ ch’usura offende?) la gente nuova e i subiti guadagni qual va dinanzi e qual di retro il prende! Ché quello imperador che là sù regna, poi che morì, cotal moneta rende che de la sua virtute l’aura impregna, sì che si fa de la vendetta ghiotto coi dossi de le man faccendo insegna...» «...che corre al ben con ordine corrotto per che l’umana gente si rabbuffa». Non altrimenti l’anitra di botto, quanto ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa di là dal fiumicello, per mirare che quei campasse per aver la zuffa; tal mi fec’io, non possendo parlare. E sé continuando al primo detto: «Ma perché paia ben ciò che non pare, lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto, con maggior chiovi che d’altrui sermone, la giustizia di Dio, ne l’interdetto, come udirai con aperta ragione: l’esser qua giù, lasciando il dolce loco ch’è principio a la via di salvazione, nulla sen perde, ed esso dura poco: l’Angel di Dio, sedendo in su la soglia, de le magiche frode seppe il gioco che mai non empie la bramosa voglia; ma perché frode è de l’uom proprio male, e frutta sempre e mai non perde foglia, la braccia aperse, e indi aperse l’ale, sotto le quai ciascun cambiava muso, corruttibile ancora, ad immortale. Ma perch’io non proceda troppo chiuso, tal quale io dico, e’ fassi col suo atto, sì che possibil sia l’andare in suso, perché men paia il mal futuro e ’l fatto». Allor lo presi per la cuticagna: «Perché hai tu così verso noi fattop58 d’ogne costume e pien d’ogne magagna?» (Oh me dolente! come me riscossi!), «Lèvati quinci, e non mi dar più lagna!». «Tu non pensavi ch’io loico fossi!», a la risposta così mi prevenne, «Cosa di là ond’io vivendo mossi, trattando l’aere con l’etterne penne, escusar puommi di quel ch’io m’accuso: tale innocenza là giù si ritenne. Così de l’atto suo, per li occhi infuso, è quel che spera ogni fedel com’io: sì come torna colui che va giuso ne la presenza del Figliuol di Dio, io sarei messo già per lo sentiero di benigna letizia in atto pio, credendo e non credendo dicer vero». Allora udi’: «Dirittamente senti l’angelica natura e ’l ministero per confondere in sé due reggimenti!» Così per una Voce detto fue a cui tutti li tempi son presenti; «Entra nel petto mio, e spira tue l’amor che move il sole e l’altre stelle. Or va, ch’un sol volere è d’ambedue!» A questa Voce vid’io più fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea più belle sì del cantare e sì del fiammeggiarsi al piè de l’alta ripa che pur sale. Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi, un carro, in su due rote, triunfale, ivi mi parve in una visione. Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale sì come quando il colombo si pone. E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, girando e mormorando, l’affezione; piuttosto, dentro, il suo novo ristrinse. Per ch’io mi mossi, e a lui venni ratto, e, come ambo le luci mi dipinse, rividil più lucente e maggior fatto. Così sparì; e io sù mi levaip59 però che l’occhio m’avea tutto tratto. E sanza udire e dir pensoso andai fuor de la queta, ne l’aura che trema vocali e consonanti; e io notai la mente mia da me medesmo scema.
Purg. 24, 70 Purg. 14, 130 Par. 14, 109 Purg. 14, 128 Purg. 13, 1005 Par. 4, 7 Purg. 11, 76 Par. 7, 17 Purg. 31, 124 Par. 23, 6310 Purg. 10, 48 Purg. 3, 106 Par. 19, 57 Inf. 15, 31 Purg. 23, 11715 Inf. 34, 33 Purg. 16, 120 Inf. 22, 61 Purg. 15, 140 Inf. 10, 7620 Purg. 32, 19 Inf. 28, 29 Inf. 33, 13 Inf. 28, 33p56 Inf. 17, 7325 Par. 29, 54 Inf. 17, 71 Inf. 31, 47 Par. 21, 109 Purg. 15, 2130 Par. 21, 111 Inf. 4, 9 Par. 21, 107 Purg. 2, 86 Inf. 2, 12235 Inf. 2, 123 Inf. 8, 95 Purg. 15, 90 Par. 9, 139 Inf. 9, 3940 Inf. 1, 92 Purg. 29, 44 Par. 28, 83 Inf. 27, 116 Par. 28, 8545 Inf. 31, 55 Par. 20, 54 Inf. 31, 53 Purg. 4, 81 Inf. 26, 750 Par. 20, 50 Purg. 13, 62 Purg. 29, 3 Inf. 32, 36 Inf. 8, 7955 Par. 9, 45 Purg. 29, 1 Purg. 27, 96 Par. 16, 20 Inf. 31, 5760 Inf. 22, 111 Inf. 27, 106 Par. 4, 69 Purg. 30, 87p57 Par. 9, 13165 Inf. 19, 105 Inf. 16, 71 Inf. 11, 95 Inf. 16, 73 Purg. 6, 570 Inf. 1, 124 Purg. 11, 125 Purg. 28, 110 Purg. 17, 122 Purg. 3, 10275 Purg. 17, 126 Inf. 7, 63 Inf. 22, 130 Inf. 22, 131 Purg. 28, 3580 Inf. 22, 135 Inf. 30, 139 Inf. 10, 76 Par. 13, 91 Inf. 26, 7385 Purg. 8, 138 Purg. 33, 71 Inf. 11, 33 Par. 32, 101 Inf. 2, 3090 Par. 15, 18 Purg. 9, 104 Inf. 20, 117 Inf. 1, 98 Inf. 11, 2595 Par. 18, 30 Purg. 12, 91 Inf. 25, 123 Inf. 2, 14 Par. 11, 73100 Par. 5, 30 Purg. 3, 77 Purg. 20, 85 Inf. 32, 97 Purg. 15, 90105p58 Inf. 33, 152 Inf. 27, 121 Inf. 32, 95 Inf. 27, 123 Par. 25, 51110 Purg. 19, 96 Purg. 2, 35 Par. 14, 136 Par. 32, 84 Par. 1, 52115 Par. 26, 60 Inf. 16, 133 Par. 27, 24 Inf. 30, 84 Par. 31, 62120 Par. 29, 83 Par. 24, 67 Par. 10, 117 Purg. 16, 128 Purg. 16, 28125 Par. 17, 18 Par. 1, 19 Par. 33, 145 Inf. 2, 139 Par. 21, 136130 Par. 21, 137 Par. 21, 138 Par. 12, 23 Purg. 10, 23 Par. 18, 100135 Purg. 29, 107 Purg. 15, 85 Purg. 29, 109 Par. 25, 19 Inf. 24, 130140 Par. 25, 21 Inf. 9, 3 Inf. 21, 91 Par. 23, 91 Purg. 2, 21145 Purg. 1, 109p59 Inf. 9, 35 Purg. 26, 100 Inf. 4, 150 Par. 18, 89150 Par. 30, 27

II. Le invettive e gli sfoghi

p60

Inferno:
XIX, 1–6 (contro i simoniaci)
XIX, 90–114 (contro i papi simoniaci)
XIX, 115–117 (contro l’imperatore Costantino)
XXV, 10–12 (contro Pistoia)
XXVI, 1–12 (contro Firenze)
XXXIII, 79–84 (contro Pisa)
XXXIII, 151–153 (contro Genova)

Purgatorio:
VI, 76–96 (contro l’Italia)
VI, 97–117 (contro l’imperatore Alberto d’Asburgo)
VI, 118–126 (contro Cristo)
VI, 126–151 (ancora contro Firenze)
X, 121–129 (contro i superbi)
XIV, 99–123 (contro i romagnoli)
XV, 10–15 (contro l’umana cupidigia)

Paradiso:
VI, 100–111 (contro i Guelfi e i Ghibellini)
IX, 10–13 (contro i peccatori in generale)
IX, 127–141 (contro il clero romano)
XI, 1–9 (contro l’attaccamento alle cose terrene)
XI, 124–129 (contro la decadenza dei Benedettini)
XII, 112–120 (contro la decadenza dei Francescani)
XVI, 52–57 (contro la decadenza dei fiorentini)
XVII, 115–132 (contro la decadenza del mondo)
XIX, 115–147 (contro la decadenza dei prìncipi cristiani)
XXI, 127–141 (contro i prelati)
XXVII, 21–27 (contro i papi corrotti)
XXVII, 40–54 (ancora contro i papi corrotti)
XXVII, 55–60 (contro Dio che non interviene)
XXVII, 121–141 (ancora contro l’umana cupidigia)
XXIX, 108–126 (contro le prediche vuote e interessate)
XXX, 139–141 (ancora contro l’umana cupidigia)

III. Notizie su Gruccio de’ Bardonecchi1

p61

“Magnus et suptilissimus archimista”2, intendendo con questa parola “quella parte di alchimia che è appellata sofistica”3, Gruccio era di origine abbastanza umile: “uno popolare di picciol sangue”, come attesta l’Anonimo Fiorentino, il quale aggiunge che “fu da Firenze”4.

Abbilissimo nei maneggi, “seppe contraffare ogni uomo”5, tanto che, bazzicando in ambienti frequentati da persone che intendevano “all’avarizia e all’acquisto per ogni modo, con violenza e rubamento”6, “cautamente si mosse con alcuno compagno”7 e, da “omo molto saputo” che “ebbe molto le virtù politiche e guadagnava molto”8, presto si arricchì diventando “omo di corte”9, ma anche mantenendo “magnam sequelam in populo”10. E questo ottenne in quanto, ricevuti incarichi lucrosi e “in ufficio e altrove avendo fatto dell’altrui suo”11, si mostrò tuttavia sempre “flexibilis”12, ebbe “respectum ad conventionem”13 e, p62 “pascette molte genti, imperò che tenea grande famiglia”14.

In effetti Gruccio, pur essendo “grandissimo rubatore dounque potea”, tanto che “chiunque volea rubare era da lui ricevuto e datogli aiuto e favore”15, in “tanta multitudine avarorum”, non fu “avarus in retinendo, sed in capiendo”16, per cui, anche se “ogni suo atto si drizzava ad avere pecunia”, si mostrò sempre “largo e curiale uomo e de grande cortesia”17, riuscendo a raggirare gli altri con grande abilità. Risultato che ottenne anche perché “labia et os multum et saepe exercuit”18, al punto che “nullum sermonem sciebat facere, quem non condiret oleo adulationis; omnes ungebat, omnes lingebat, etiam vilissimos et mercenarios famulos”19. È per questo che Pietro di Dante lo paragona curiosamente al “bivero animali, quod cum cauda piscatur mittendo ipsam in aquam et ipsam agitando, ex cuius pinguedine resultant guttae ad modum olei; et dum pisces ad eas veniunt, tunc se revolvendo eos capit”20.

E riuscì sempre a guardarsi le spalle21, frequentando persone ricche e “senatores de ordine illustri”22, che “dierongli grande quantità di denari”23, stabilendo rapporti “cum dominis Lombardiae tempore suo, inter quos tractabat saepe”24 e, sopratutto, entrando nelle grazie della Curia romana col rivelare “li segreti dello imperatore a’ suoi nemici, cioè al papa”25 e col mostrarsi disponibile a “potius contra conscientiam complacere Bonifacio, quam displicere illi pro salute animae suae”26. Per questo fu lui ad avere l’incarico dallo stesso Bonifacio “di trattare p63 della pace coi Colonnesi e promise loro ciò che vollono, e rimise messer Iacopo e messer Piero della Colonna nel cardinalato”27, salvo poi perseguitarli e disfarli.

Continuavo intanto le sue abituali frequentazioni: quelle con “simoniaci, avari, rattori”, con “cherici tristi” che “non curavano se non d’avere danari” e con “rubatori e omini violenti” che “aveano tolto al Comune”28. In particolare fa spicco il rapporto privilegiato con un individuo che il Benvenuto definisce “magnus bestionus”29 e “vir mirabilis, magnus, membrutus, niger pilo et carne fortissimus, qui caput suum portabat erectum contra coelum”30. L’amicizia fra i due fu molto stretta: “fuerunt sodales, quasi simul sedentes ad mensam”31. E poiché, a quanto pare, questo tale “fu il primo che trovò mettere, in fagiani e pernici arrosto, garofani”32, si racconta che Gruccio in suo onore “faciebat — appunto — assari phasianos et capones ad prunas factas ex gariofilis”33.

Una gran bella vita, dunque, e dispendiosa, anche se funestata una volta dal suicidio di uno della combriccola, “il quale, poich’ebbe distrutta la sua facoltà, per dolore e per disperazione s’appiccò per la gola in casa sua”34. Ma non dovette essere una gran tragedia, se è vero che la brigata degli amici di Gruccio, ancora secondo la testimonianza del Buti, “continuò a vivere molto lussuriosamente e prodigalmente, stando in cene e desinari, sempre cavalcando bellissimi cavalli ferrati coi ferri d’ariento, vestendo bellissime robe, tenendo famigli vestiti a taglia e spenditori, facendo sempre più e più vivande e di grande spesa”. Gruccio però pur essendo, secondo il Benvenuto, il vero “princeps gregis”35, si tenne sempre defilato: parlava “verecunde”36, usava “belli motti”37 e si mostrava in p64 ogni occasione ufficiale “cavaliere pieno di cortesia e d’onore”38.

D’altra parte anche per l’aspetto Gruccio si distingueva nettamente dai suoi gaudenti compari: di “colore cenerognolo”, in “quello concavo che fanno le spalle di rietro sotto il nodo del collo”39 gli spiccava “una pars in extremo eminens et altior”40 che pareva “tutto uno masso a vederla”41. Aveva anche dei problemi di deambulazione: “era zoppo del corpo”, dice il Lana; “erat claudus”42, conferma il Benvenuto.

Ma l’uomo fu tale che riuscì a trasformare in un vantaggio questi evidenti handicap, da cui in un primo tempo — prima di acquistare sicurezza e potenza — era stato intralciato43. Riuscì infatti a far credere che “dette infermità” gli avesse concesse “Colui ch’è datore di tutte le grazie, in ciò esaudendo li suoi devoti prieghi”44, creando le condizioni favorevoli alla nascita di una specie di venerazione o latria — come dice Dante — per la sua gobba, confermata anche dal Buti, là dove ci informa esserci, ancora ai suoi tempi, fedeli che ad essa “per la fortuna si botano e fanno priego a’ santi”.

E, in effetti, fu proprio sul versante del sacro e della Chiesa che Gruccio sviluppò la sua azione, mettendosi al servizio della sua potenza a corpo morto e assumendo costantemente i valori, l’ideologia e la politica della Curia romana: dalla rivendicazione di un maggior potere — come se non bastasse quello che aveva! — anche attraverso la lamentazione vittimistica per un’istituzione “quodammodo matrona potens, regina urbium, nunc proh dolor! pro magna parte serva et sclava omnium”45, alla condivisione delle sue pretese teocratiche, come dimostrerebbe un’opera di diritto canonico attribuita a Bonifacio VIII, ma che il Benvenuto afferma essere di mano di Gruccio, in cui l’autore “non divisit potestatem temporalem a spirituali, immo utrumque officium confudit in unum”46, alla condanna dei cristiani che, come dirà il Serravalle “recedeunt ab Ecclesia matre sua, p65 et vadunt huc illuc vagando, et sic incidunt in manibus diaboli”47. Fu una dedizione pressoché assoluta. Ma voleva che si sapesse. Ecco allora, ogni tanto, il sospiro sorniorne con cui alzandosi dallo scranno, si congedava da qualche prelato a cui petizione aveva promesso il suo intervento in qualche affare delicato: “Ahi Sancte Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei!”48.

Così, sempre con un occhio di riguardo per la Chiesa, non potendo comunque negare completamente l’evidenza dei fatti, fu autore di un secondo libro (perduto anch’esso49) — nel quale — secondo la testimonianza del Buti — avrebbe raccolto “tutti i mali che erano stati nel mondo dal diluvio infino ai suoi tempi, dimostrando che minori sono stati li mali nel mondo nel tempo dei cristiani che nel tempo dei pagani e tra pagani”.

In particolare della Chiesa Gruccio condivise la caratteristica posizione ferocemente sessuofobica e misogina. Si scagliò violentemente contro coloro che sono “adeo in opera venerea luxuriosa implicitos, quod porci quodammodo adaptantur”50, e giudicò in blocco le donne infedeli e incostanti per carnale natura: “per unam mulierem — ebbe a sostenere — et suam operam potest faciliter arbitrare de aliis, quia quantum ad infidelitatem sunt quasi omnes equales; quia amor mulierum non durat nisi continetur oculo, vel tactu accendatur”51. Lo troviamo dunque a scagliar fuoco e fulmini contro certa moda del vestire, sostenendo “che il primo atto e il più popolarseco e volgare della onestade della femmina è il tenere scoperte quelle membra che la natura richiede che siano chiuse”, e a proporre, poiché non basta “il comandamento del diocesano”, che “il Comune faccia una legge proibitiva”, prescrivendo l’obbligo del “velo in segno d’onestade e d’ubbidienza”52.

Per altro verso, invece — quando non erano in ballo questioni di sesso o di donne, o questioni di immediato interesse pratico e personale53p66 Gruccio mostrava una evidente tendenza alla comprensione e al lassimo: “si Deus benignus, quare sacerdos eius austerus?”54 — ebbe a dire una volta. Bisogna dunque lasciar correre. E in effetti, pare che Gruccio fosse caratterizzato da un radicale pessimismo nei confronti della natura debole e incorreggibilmente peccaminosa degli uomini. “Primus homo factus est de limo terrae, et ab ipso contraxit omnem amorem mali”55, osservava cupamente. Oppure, citando un detto di Salomone: “unus est interitus hominis et iumentorum et aequa utriusque conditio”56. Perché dunque stupirsi del fatto che ci siano uomini che “per loro capre e per loro asini e per loro buoi e per lor mercatanza, fanno voti”57, che molti siano “i modi del rubare”58 che hanno escogitato; che ci si dedichi “dominiis et potestatibus temporalibus”59 trascurando “l’opere meritorie per la salute”60 dell’anima? Ma va detto che tutto ciò potrebbe essere anche soltanto un mezzo escogitato da Gruccio per giustificare in modo, per così dire filosofico e alto, la sua coerente e costante perseveranza nelle scelte pratiche e morali di vita, la cui natura maligna non volle mai ammettere. “Non si volle mai pentere”, ci informa l’Anonimo Fiorentino. A che pro? Se l’uomo è fatto così, vuol dire che questa è stata la volontà di Dio e non c’è peccato. Anzi il male che compiono gli uomini non è che la realizzazione del Suo sommo disegno, altrimenti li avrebbe creati di natura diversa.

Questa terribile realtà è proprio quella che Dante scopre nel suo sconvolgente Canto, incarnandola figurativamente nella perniciosa e lubrica figura di Gruccio de’ Bardonecchi; un uomo che fu secondo i contemporanei “armarium omnis malitiae”61, e “cagione d’ogni male della terra”62: insomma una specie di incarnazione di Belzebù. Ma poiché era un uomo che, “quando è mal tempo sta appiattato, e come ritorna lo bono tempo esce fora e par che faccia beffe di tutti li altri”63 procedendo p67 alla vendetta, di lui era troppo pericoloso parlare o scrivere apertamente. Chi dunque ebbe il coraggio di parlare lo fece sottovoce64, chi ebbe il coraggio di scrivere trovò il modo di mimetizzare accuratamente il suo testo. Come accadde a Dante e a tutti i suoi chiosatori.

1   Tutte le testimonianze sono ricavate dalle chiose al Canto celate dai vari commentatori trecenteschi in mezzo a quelle tradizionali.

2   “Esperto e astutissimo alchimista” (Cfr. Il commento dantesco di Graziolo de Bambagliuoli [1324]).

3   Cfr. Comedia di Dante Allaghieri col commento di Jacopo della Lana bolognese (1324).

4   Cfr. Commento alla Divina Commedia di Anonimo del secolo XIV.

5   Ibid.

6   Cfr. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia di Dante attorno al 1380).

7   Anonimo Fiorentino, cit.

8   Buti, cit.

9   Ibid.

10   “grande seguito popolare” (Benvenuto, cit.).

11   Anonimo Fiorentino, cit. Valgano per tutti questi due episodi: “fu camerlingo a dare il sale” e “quando il ricevea dal Comune, il ricevea solo collo staio diritto; quando il dava al popolo, ne trasse una doga piccola dello staio, onde grossamente ne venia a guadagnare” (Anonimo Fiorentino, cit.); “tra l’altre sue operazioni, alcuna volta, a petizione d’un altro cavaliere di Firenze, il testamento di lui a suo modo fece, nel qual testamento finalmente una cavalia di pregio d’alcun suo armento a sé medesimo diede” (Chiose alla cantica dell’Inferno di D. Alighieri scritte da Jacopo Alighieri [1322]).

12   “adattabile”. Cfr. Fratris Johannis de Serravalle Translatio et comentum totius libri Dantis Alagherii (1416).

13   “rispetto delle forme esteriori” (Benvenuto).

14   Buti, cit.

15   Anonimo Fiorentino, cit.

16   “fra tanta moltitudine di avidi, non fu avido di conservare per sé il maltolto, ma solo di appropriarsene” (Benvenuto, cit.).

17   Lana, cit.

18   “continuamente esercitò le labbra e la bocca” (Benvenuto, cit.).

19   “non riusciva a pronunciare nessun discorso che non fosse condito con l’olio dell’adulazione: ungeva tutti, lappava tutti, anche i più vili e corrotti servitori” (ibid.).

20   “al castoro, che pesca con la coda, dalla quale trasudano gocce oleose, immergendola e agitando l’acqua; e appena i pesci si avvicinano ad essa, allora si gira di scatto e li cattura” (cfr. Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, 1340).

21   Ebbe “oculi ante et post” [ebbe occhi davanti e didietro] (ibid.).

22   “nobili senatori” (Benvenuto, cit.).

23   Anonimo Fiorentino, cit.

24   “con i signori padani dell’epoca, che frequentava spesso” (Benvenuto, cit.).

25   Buti, cit.

26   “dannarsi anche l’anima per assecondare il volere di Bonifacio VIII, piuttosto che dispiacergli per la salvezza dell’anima sua” (Benvenuto, cit.).

27   Buti, cit.

28   Ibid.

29   “bestione immane”.

30   “individuo mirabile, grande, nerboruto e corpulento che stava sempre a testa alta con la fronte eretta in faccia al cielo”. Questa amicizia è registrata anche dal Lana (che parla di un tale “bello e membruto de soa persona”) e da Pietro di Dante (che lo definisce “grossum et amplum” [grande e grosso]).

31   “furono amicissimi: si potrebbe dire che mangiassero nello stesso piatto” (Pietro di Dante, cit).

32   Lana, cit.

33   “faceva cucinare fagiani e capponi aromatizzati ai chiodi di garofano” (Benvenuto, cit.).

34   Buti, cit. La stessa notizia anche in Benvenuto: “cum prodigaliter dilapidasset omnia bona sua, ut audio, tandem desperate suspendit se laqueo” [dopo aver buttate al vento tutte le sue sostanze, come ho sentito dire, alla fine, disperato, si impiccò].

35   “capo della compagnia”.

36   “pudicamente” (Benvenuto, cit.).

37   Cfr. L’Ottimo commento della Divina Commedia (1333).

38   Ibid.

39   Anonimo Fiorentino, cit.

40   “una gibbosità evidente e puntuta” (Benvenuto, cit.).

41   Anonimo Fiorentino, cit.

42   “claudicava”.

43   Narra il Benvenuto: “iste non erat bene aptus ad fugiendum, quando ibat cum aliis ad furandum” [costui non era molto abile a fuggire, quando andava coi suoi complici a rubare].

44   Ottimo, cit.

45   “un tempo Signora potente, regina di città, e ora, ahimé!, troppo serva e schiava di tutti” (sono parole dello stesso Gruccio citate dal Benvenuto).

46   “teorizzò l’inscindibilità del potere temporale e di quello quello spirituale, fondendoli in un unico viluppo”.

47   “che si allontananano dalla loro madre Chiesa e gironzolano qua e là, andando poi a finire nelle grinfie del demonio”.

48   “Ah, Santo Iddio, quante grane si devono sopportare per la Chiesa del Signore!” (Lana, cit.).

49   Forse varrebbe la pena di indagare sulle ragioni delle reiterate scomparse delle opere di Gruccio. Vien da pensare al vecchio adagio “scripta manent”, con tutti i rischi che comporta.

50   “a tal punto involtati nel brago della lussuria, che somigliano proprio a porci” (Pietro di Dante, cit.).

51   “da una donna sola e dal suo comportamento è agevole estrapolare le caratteristiche di ogni altra, poiché quanto a infedeltà sono quasi tutte uguali; l’amore delle donne è incostante, non dura se non è tenuto in caldo dalla vista dell’amante o è stimolato dai suoi toccamenti” (Serravalle, cit.).

52   Ottimo, cit.

53   In questi casi il suo motto era: “A traditore non si de’ tenere leanza” (Buti, cit.).

54   “se Dio è indulgente, perché il suo sacerdote dovrebbe essere severo?” (Benvenuto, cit.).

55   “Adamo fu plasmato col fango della terra, e da esso contrasse tutto l’amore per il male” (ibid).

56   “una è la morte dell’uomo e quella degli asini, ed esattamente uguale è la loro condizione” (ibid).

57   Ottimo, cit.

58   Ibid.

59   “ai domini e ai poteri di questo mondo” (ibid.).

60   Ottimo, cit.

61   “ricettacolo di ogni male” (Benvenuto, cit.).

62   Anonimo Fiorentino, cit.

63   Ibid.

64   “Occultamente di lui si parla”, avverte ancora l’Ottimo.